TOMMASO CIRIACO,
ROMA
BRUXELLES
Da Bruxelles lo cercano al telefono per tutto il pomeriggio. Matteo Salvini è “irreperibile”, non risponde, non si fa trovare. Volato ad Atene a seguire con il figlio la trasferta in Europa League del suo Milan. Per lui, la trattativa con la Commissione si è chiusa mercoledì: sotto il 2,04 per cento non si va, soprattutto «non si sognino di rimettere mano alle pensioni con quota cento», già “sacrificate” con i 4,5 miliardi stanziati al posto dei 6,7 iniziali. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria è blindato coi vertici della direzione generale del Tesoro “sotto chiave” negli uffici della Commissione e lì resterà a oltranza, sembra fino a domenica: il ministro e i tecnici hanno urgente bisogno di parlare col leader leghista, nelle ore cruciali della trattativa tutt’altro che conclusa sulla manovra italiana a rischio infrazione. Ma è una ricerca vana. Viene informato il premier Conte riunito nel palazzo di fronte, Justus Lipsius, impegnato nel Consiglio europeo su Brexit.
I sospetti del vicepremier leghista sono fondati, perché è proprio a un’ulteriore stretta sulle pensioni che l’ufficio del Commissario agli affari economici Ue che fa capo a Moscovici punta per sforbiciare ancora la percentuale del rapporto deficit/pil. È soprattutto la riforma della Fornero che non piace a Bruxelles, perché è vero che costerebbe nel 2019 “solo” 4,5 miliardi grazie alla partenza ad aprile. Ma è anche vero che nei due anni successivi la spesa salirebbe al doppio, 8 miliardi all’anno. Salvini non sente ragione, come spiega ai suoi prima di staccare il cellulare per la partita. «Il mandato al premier Conte è chiudere l’accordo con l’Europa, non a calarsi le braghe o a cadere alle provocazioni di Moscovici». Palazzo Chigi ha chiuso sul “numerino” ultimo del 2,04, non uno “zero virgola” in meno, come Di Maio e lo stesso Salvini hanno sottoscritto nel patto con Conte durante la cena di mercoledì sera a Roma. Il premier era appena rientrato dal faccia a faccia col presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e l’intesa sembrava chiusa. Non era così.
Da ieri mattina i paesi rigoristi del Nord Europa esercitano il loro pressing perché l’Italia faccia “ancora di più”. Il ministro Giovanni Tria, sbarcato in mattinata all’aeroporto di Bruxelles, cappello in testa per via degli zero gradi, si dice finalmente «fiducioso» sull’esito della trattativa che «è sulla buona strada ma non ancora chiusa: sono qui per condurre i negoziati». Che col passare delle ore si riveleranno più problematici e lunghi di quanto il governo gialloverde sperasse.
«C’è una distanza di 4,5 miliardi che ancora ci separa, un ulteriore 0,25 per cento da limare e non credo che ci facciano la procedura di infrazione per lo 0,2: adesso però i due devono dirci come e dove farlo», confidava in serata il premier Conte ai suoi a margine dei lavori del Consiglio.
I due sono i vice, riottosi, sospettosi tra loro, poco inclini al cedimento. «Chiaro che sotto il 2 per cento noi non dobbiamo andare», si sono raccomandati mercoledì sera nella cena a tre in un ristorante romano. I leader di maggioranza non si fanno carico di altri sacrifici, a Conte conferiscono ancora una volta il mandato con una nota congiunta di ieri mattina, ma con il vincolo a «mantenere gli impegni». Quelli sottoscritti a Roma, è inteso.
Di Maio fa sapere che lui dal reddito di cittadinanza non può ritagliare altro. Sono già scesi da 9 a 7,5 miliardi per garantire, su suggerimento della Ragioneria dello Stato, quasi l’intera platea dei 5 milioni di poveri. Per l’esattezza, il 90 per cento, dato che per un principio della statistica – hanno calcolato – è difficile che a far richiesta di un contributo sia la totalità degli aventi diritto. L’impegno del M5S comunque è a coprire l’intera platea se le istanze dovessero superare il 90. Pronti a sforare ancora. Nei fatti, però, siamo di fronte a un nuovo braccio di ferro Lega-Cinque stelle.
Proprio quel che a Bruxelles in queste ore hanno intuito: il 2,04 va tradotto in tagli nero su bianco, sui quali a Roma gli alleati non sono ancora d’accordo. In un infinito rimpiattino tra i due vice.
È il motivo per il quale il premier Conte tornerà con molta probabilità oggi a rivedere Juncker, per spiegare, rassicurare, chiedere altro tempo. La stessa cosa spera di fare in un faccia a faccia informale con la cancelliera Angela Merkel e l’olandese Rutte.
Ma solo i due leader del suo governo potranno aiutarlo a uscire dall’ultimo angolo.