Mircea Eliade, la peggio gioventù
Filippo Polenchi
Ci s’inoltra in questo tempio oscuro seguendo una liturgia della notte, un’immersione pericolosa in acque catramali. A lungo favoleggiato ma sinora assai poco letto, Gli huligani di Mircea Eliade (1935) è uscito per la prima volta in Italia per Calabuig (gruppo Jaca Book), nella traduzione di Cristina Fantechi. Così leggiamo finalmente il romanzo controverso di questo storico delle religioni, alfiere cosmopolita (rumeno di nascita, ma scrivente in francese e morto professore a Chicago) di una fuga dal tempo, di un illo tempore extra-storico, spaziotempo di ierofanie e atti mitici perduti. Col tempo le teorie di Eliade sono divenute oggetto di discussione fra gli storici delle religioni e gli antropologi, tanto che la loro esattezza è ora al vaglio della critica accademica, non più così sicura delle sue posizioni (ad esempio sul suo ragionamento deduttivo e del suo pan-indianismo, qui ). Eppure rimane immutato, a livello diffuso, il fascino del pensiero di Eliade, che seppe esercitarsi con la saggistica, la drammaturgia teatrale e la narrativa.
Nella fattispecie Gli huligani è lo spaccato di una generazione incendiata da un disperato individualismo. Sono giovani intellettuali che passano il tempo fra lezioni di piano, soggiorni balneari, promiscuità sessuale, bordelli, feste, tentazioni di vita militare, debiti. Una gioventù cannibale ante litteram, per un romanzo scandalistico, ante-camerale, ritratto del dark side di una gioventù che non sa che farsene di un presente anodino («L’uomo libero è molto più puro di quel che possiamo immaginare noi, noi che siamo ottenebrati da pregiudizi e catene») e che capta, come in una registrazione sul campo, segnali di un funereo e imminente futuro di sangue.
Ma chi sono gli huligani? Li descrive così David Dragu, professore di provincia: «Nella vita, c’è un solo inizio fecondo: l’esperienza huliganica. Non portare rispetto a nulla, non credere che in sé, nella propria giovinezza, nella propria biologia, se preferisci […] Poter dimenticare le verità, avere tanta vita in sé da non lasciarsene né penetrare né intimidire, ecco la vocazione dell’huligano!». Più avanti Alexandru – uno dei protagonisti principali del romanzo, insieme a Petru Anicet – domanderà che differenza corra tra gli huligani e i «vandali» che arroventano le strade di Bucarest e della Romania intera. Nessuna differenza, risponderà Dragu, perché l’huliganesimo è un enzima: è la vita biologica, feroce, bestialmente determinata, metasociale.
Romanzo da camera, perlopiù giocato in interni, con scene dialettiche appianate come in una dimostrazione scientifica, questi huligani oscillano fra polifonia e verbosità, con personaggi talvolta ridotti a pure funzioni, attori appiattiti dall’esigenza teleologica dell’autore. Si veda il quartetto costituito da Tomescu, Dragu, Eleazar e il signor Baly: ciascuno portatore di un paradigma da esporre, con gradazioni ideologiche che vanno dal nichilismo pre-demonico al fascismo borghese.
E così, a fronte di una traballante qualità letteraria, si rischia di leggere il romanzo esclusivamente al luziano fuoco della controversia, diagnosticando in trasparenza le affinità storiche con il rapporto controverso che legò Eliade alla Guardia di Ferro (o Legione dell’Arcangelo Michele). Certo è che il miliziano Eliade entrò nel 1936 nei gruppi nazionalistici di Codreanu, favorito dal suo maestro Nae Ionescu, e ne fece parte fino al ’37 (per essere poi imprigionato l’anno successivo), mentre la redazione del romanzo, che uscì l’anno seguente, risale al ’34. Dunque, se volessimo leggere il testo anche soltanto come documento biografico, dovremmo vederlo come un banco di lavoro sul quale un giovane accademico assembla e disallestisce il proprio hardware concettuale, un’officina nella quale si fabbrica una visione del mondo, come se si chiedesse alla parola scritta un vaticinio sulla propria combattuta necessità di scegliere l’azione o il niente. E le scelte, proprio, sono al centro del romanzo, l’arteria principale di quella che viene definita «la domanda centrale», ovvero «cosa mette l’uomo davanti alla realtà?». La contemplazione della morte, la capacità di scegliere, le azioni collettive, l’orda barbarica delle origini sono le risposte contemplate da Eliade. Il destino di una scelta personale innesca un campo di forze nel quale temi e prefigurazioni dell’autore trovano asilo politico.
Se Dragu rimprovera Alexandru che i «vandali» del «partito politico d’azione» seguito da Eleazar non sono una «rivolta biologica» ma «barbarie organizzata», è altrettanto vero che l’afflato che anima le avventure di questa gioventù rumena – che parteggi per la fazione-Dragu, per quella di Eleazar o per quella di Alexandru – appartiene a una «mistica della morte», per usare una formula di Furio Jesi: «Non ti accorgi della bellezza che c’è nel modo in cui la gioventù di ogni paese si prepara a morire? […] Mai il mondo ha preparato con più successo la gioventù a una morte collettiva».
Sangue e sacrificio rituale: lessico di «destra», liturgia nera, prassi di cristianesimo reazionario, linfa vegetale della Guardia di Ferro, culto primigenio della Romania fra le due guerre. L’huligano di Eliade accoglie dell’etimologia russa della parola la ribellione, il tributo cruento alla rivolta che scuote la Romania: perché la rivolta, a differenza della rivoluzione, non pensa al domani, ma solo alla distruzione, e si nutre del sacrificio. E allora non è un caso che tutta la seconda parte del romanzo somigli a una caccia grossa alla ricerca di una vittima – e ce ne saranno di vittime: tutte donne, figlie di una violenza di genere acquisita dalla cultura dei maschi. Femmine umiliate, stuprate, ingannate, ripudiate e così avanti fino alla morte.
È la morte la vera scelta dei personaggi. La morte assunta su di sé come eroismo mistico o la morte come conseguenza inevitabile delle libertà fra individui che cozzano le une con le altre: «Noi moriremo tutti, a milioni, stretti gli uni agli altri, e nessuno si sentirà solo in quel momento». È con questo canto di funerea fratellanza interumana che la «peggio gioventù» s’avvia alla catastrofe.
Mircea Eliade
Gli huligani
traduzione di Cristina Fantechi, con un testo di Roberto Scagno
Calabuig, 2016, 480 pp., € 20
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Pierre Drieu la Rochelle, combattere la vita
Antonino Trizzino
Pierre Drieu la Rochelle (1893-1945) è stato romanziere e saggista, seduttore e impotente, comunista e fascista, «finito a destra come succede di volta in volta agli uomini di sinistra». Come Ernst Jünger, Gottfried Benn e Louis-Ferdinand Céline, Drieu è una delle figure del Novecento la cui opera non può essere compromessa dall’uomo. Reazionario e cinico, misogino e antisemita, Drieu si colloca nella poco raccomandabile famiglia degli anarchici di destra, quelli il cui desiderio di non piacere nasconde quasi sempre un incontrollato desiderio di piacere. Fare arte, si tratti dei romanzi di Hamsun o di altre espressioni del cattiverio anarchico-fascista, significa, dalla prospettiva dell’autore, difendersi dal mondo e combattere la vita, significa rispondere soltanto allo stile.
Gilles , il romanzo più noto di Drieu, è un libro molteplice che include la storia di un intellettuale francese tra le due guerre, il romanzo della decadenza europea, un saggio politico e un’autobiografia. Uscito in Francia nel 1939, pubblicato nel 1960 in Italia da Sugar, e oggi riproposto da Giometti & Antonello nella stessa, classica traduzione di Luciano Bianciardi, Gilles è il resoconto di una sconfitta. Il giovane protagonista, Gilles Gambier, ha molte donne e un brutto carattere: è spregiudicato e decadente, passionale e apatico, dandy e privo di tutto. È un reduce della Grande Guerra che in trincea ha avuto «ore d’estasi»; è un brillante pamphlettista che ammira nel cattolicesimo un sistema ideologico infallibile; è un puttaniere che sogna di perdersi «nel nulla delle strade, dei posti anonimi»: e quale luogo più anonimo di un bordello?
Gilles sa piacere con facilità; una facilità pari soltanto a quella con cui subito dopo dispiace. A Parigi ha pochi contatti; nessun legame che non passi per la morte sembra interessarlo, «quella morte che è veramente il grande interesse della vita». Gilles ha un potere sulle donne e attraverso le donne sul denaro («ne aveva incontrate, di ragazze ereditiere!»), eppure non vuole legami («io non credo a loro, non credo che esse abbiano un’anima»): lacerato dall’imperativo dell’azione e dal terrore dell’impotenza, il suo unico pensiero è quello di scegliere se andare a letto con la moglie o con l’amante. La moglie è ebrea, figlia di un ricco industriale e aspirante madre, naturalmente fedele, innamorata e perfetta padrona di casa. L’amante è americana, infermiera, dunque molto volitiva; ma anche tenera, sensuale, disinibita.
Come Drieu, Gilles è un misantropo che per guadagnarsi da vivere deve «passare sotto le grinfie del prossimo». Il rapporto di Drieu con il denaro è sempre stato controverso, almeno fino a quando non viene chiamato da Gaston Gallimard a dirigere «La Nouvelle Revue française», favorendo così la riapertura della casa editrice durante l’occupazione tedesca.
Il Drieu romanziere che odiava il mondo moderno, ma che non aveva esitato a sposare in prime nozze una ricca ebrea, è oggi entrato nella Bibliothèque de la Pléiade, il tempio francese della letteratura. Il Drieu misogino, ma con un debole per il mecenatismo femminile, aveva avuto negli anni Trenta due relazioni importanti: una con la ricca ereditiera argentina Victoria Ocampo –testimoniata dal carteggio Amarti non è stato un errore. Lettere 1929-1944, Archinto 2011 –, la fondatrice della rivista «Sur», che chiamerà tra i suoi collaboratori Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Ernesto Sabato e lo stesso Drieu; l’altra con Christiane Renault, la moglie dell’industriale Louis Renault.
Nel frattempo Drieu corteggia il suicidio, cambia idea, ma ormai sa di appartenere alla fine e si consacra a un’estrema meditazione sulla morte: «Io sono vivo solo quando avverto l’eternità», scrive in una delle ultime pagine di Gilles. Ma la scrittura non lo salverà, perché la scrittura non è un salvacondotto.
Una sera di agosto del 1944 Drieu, che teme per il suo passato di collaborazionista (all’inizio della guerra aveva aderito alla Francia di Vichy), prende una dose di veleno: i medici riescono a rianimarlo. Qualche giorno dopo, Gerhard Heller, il direttore della sezione Propaganda della Wehrmacht a Parigi, gli procura un passaporto con il visto per la Svizzera. Drieu ha paura di dover spiegare le sue belle ragioni a «uomini spregevoli» e preferisce uccidersi con il gas il 15 marzo del 1945, quando su di lui già pende un mandato di cattura. Nell’ultima lettera all’amato fratello Jean, in cui annuncia la volontà di morire, Drieu disegna la parabola della crisi dell’uomo europeo che oggi, a più di settant’anni di distanza, assume una sospetta attualità: «Qualcosa sta morendo di questi tempi in Europa, e io non intendo sopravviverle».
Pierre Drieu la Rochelle
Gilles
traduzione di Luciano Bianciardi e postfazione dell’autore
Giometti & Antonello, 2016, 573 pp., € 28
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Dentro la grotta Céline
Luca Sebastiani
Ogni volta che si apre il discorso su Louis-Ferdinand Céline, sembra impossibile, e quasi sconveniente, eludere quello che è passato nell’opinione comune come lo «scandalo» o «caso» o «enigma Céline» – definizione che qualifica come problematica non tanto l’opera dello scrittore, quanto l’inconciliabilità di questa con la sua adesione ideologica a un becero antisemitismo. L’incapacità a comprendere questa contraddizione ha finito col conferire al dottor Destouches un ruolo di apolide nella memoria dei francesi (e non solo) che ne ha reso l’opera incollocabile.
Recentemente il dossier Céline è stato riaperto in patria da un ulteriore atto di accusa, Céline, la race, le Juif(Fayard), libro con cui gli autori, Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour, hanno inteso mettere la parola fine alla questione, portando a carico del dottor Destouches tante e tali prove documentali da chiuder la bocca a chi ancora poteva pensare di salvare Céline, renderlo frequentabile smussandone le responsabilità.
Sì, dicono e provano gli autori, l’autore del Viaggio al termine della notte è stato un collaboratore attivo degli occupanti nazisti. Ha incontrato e scambiato colla dirigenza SS in Francia, e durante l’occupazione ha attivamente collaborato da una posizione antisemita e pronazista sia con la penna – ripubblicazione dei pamphlet Bagatelle per un massacro eLa scuola dei cadaveri, pubblicazione delle Belle bandiere, interventi virulentemente razzisti sulla stampa – sia con la parola – denunciando all’occupante sei ebrei e due comunisti. Già nel ’36 Céline aveva optato per Hitler contro Blum (e il Fronte popolare) sommando nei suoi nuovi pamphlet, all’antibolscevismo di Mea culpa, una carica antimassonica, antiplutocratica e soprattutto antisemita talmente peculiare nel panorama francese da diventare un «caso» anche nella lista nera degli scrittori collaborazionisti.
Rispetto all’antisemitismo francese di ascendenza nazionalista e cristianizzante (alla Drieu la Rochelle o alla Paul Morand), e al collaborazionismo «moderato» alla Jean Giono o alla Marcel Aymé, quella di Céline fu una collaborazione attiva sulla base di un antisemitismo decristianizzato e apertamente eugenetico e razziale.
Il meticoloso lavoro degli storici (e di questo libro) ha il merito indubbio di contrastare con le prove le posizioni indulgenti alla Gide, il quale credeva di poter sostenere che il dottor Destouches medesimo non credesse alle proprie eruzioni antisemite; ma dicono poco o nulla dell’opera e la sua collocazione, contribuendo semmai a mantenere vuota la casella Céline.
Anche dopo che il giudizio di colpevolezza sul dottor Destouches sia stato emesso, i medesimi accusatori e gli amanti delle Lettere continuano a formulare così il mistero Céline: com’è possibile che grandezza letteraria e abiezione umana stiano insieme?
Poiché interrogare vuol dire porre le condizioni della risposta, non credo che così posta la questione possa permettere una qualche solida soluzione; poiché così formulata la domanda presuppone che la Letteratura sia senz’altro l’espressione del Vero e del Bene attraverso il Bello, secondo un’antica convenzione di ascendenza platonica da cui discenderebbe un’attitudine critica che si risolverebbe nella valutazione dell’adeguamento ad un modello.
Anche chi dopo molteplici resistenze riesce a leggere Céline accettandolo appunto come «caso» nella Repubblica del Bello, magari comprendendo l’antisemitismo celiniano con una semplicistica determinazione sociologia – il piccolo Ferdinand ha respirato la cultura antisemita dell’ambiente piccolo borghese in cui è cresciuto – non può comprendere fino in fondo un’opera che va invece letta non tanto dal punto di vista del Bello o del Vero o del Bene, ma dal punto di vista del Vivo, con tutti i pericoli che ne discendono.
La petite musique di cui Céline ha sempre parlato a proposito del proprio stile, nient’altro sarebbe, infatti, che il tentativo di rendere vita alla scrittura, alla «pietra tombale» delle parole stampate, infondendo la trascorrevolezza delle parole dette e la tonalità emotiva della voce al «maestoso silenzio» della scrittura. Attraverso la disarticolazione della sintassi e l’invenzione di una lingua argotica stilizzata (raggiunta in particolar modo a partire da Guignol’s band), Céline ha inseguito così la possibilità di un altro approccio alla scrittura, un approccio che si fonda sulla rinuncia a qualsiasi principio di organizzazione formale; che sacrifica la meccanica della Verità (per lui astratta, socialmente costruita e dunque sempre menzognera) per fare spazio alla Vita della Voce (concreta, biologica, immanente, originaria).
Per Céline non solo Dio è morto, ma non smette mai di morire, e la scrittura allora non può essere comunicazione di verità a priori, ma invenzione di verità emotive; espressione di una presenza viva che, in virtù della Morte, non può che essere metamorfica e dileguante, ma mai Essere, cioè compiersi e offrirsi alla contemplazione dell’Uomo Buono. L’uomo è voce, un anacoluto ontologico.
Con questo slittamento, però, Céline si è consapevolmente esposto alle forze oscure della Vita: «Ho bisogno di entrare nel delirio, perché sono incapace di raccontare una storia secondo lo spirito logico dei francesi…devo sentire una risonanza, lavorare di nervi, seguire la pista buona, arrivare fino all’ingresso della grotta, e poi entrarci dentro, finché al minimo suono della mia voce rispondano mille echi». Sono appunto negli echi del «delirio» che per Céline appare la forza della vita, la sua verità di desiderio non formalizzabile. Una forza con cui i sistemi fondati sull’apriorità del Vero non sono conciliabili, poiché tra questi e quello c’è un’eterogeneità formale irriducibile.
Da questo punto di vista, per Céline l’esistenza sociale dell’uomo è una gabbia burocratica, «una menzogna», qualsiasi sia il regime politico o l’Idea che ne organizzi la forma: «Nessun regime resisterebbe a due mesi di verità. Parlo del sistema marxista, così come dei nostri sistemi, borghesi e fascisti». La verità di cui parla è questa forza che a contatto con la formalità della realtà sociale ne trasgredisce i tratti deformandoli, partendo dalla lingua, lo strumento che garantisce l’unità formale di Verità e Realtà nella coscienza.
«L’emozione è tutto nella vita!» (Guignol’s band) non è allora una trovata, uno slogan, ma un programma ben determinato che privilegia la tonalità connotativa e espressiva della parola in un modo simile a quello con cui Rousseau descriveva la vocazione ai tropi, alla lingua figurata degli uomini primitivi. Nella prassi vuol dire disarticolare i rapporti sintagmatici della frase con gli intervalli, con i celebri tre punti che fanno risuonare i rapporti paradigmatici come nella pittura neoimpressionista lo spazio che separava i punti di colore puro servivano ad esaltare i rapporti cromatici; disarticolare la trama verso il limite del non figurativo («I pittori hanno abbandonato il soggetto poco a poco. Io ho tentato la stessa avventura», Da un castello all’altro).
Se la lingua, mossa dal bisogno, è ridotta a comunicazione funzionale, allora diventa mezzo di separazione degli uomini, organizzazione dei rapporti sociali reciproci. Solo nell’espressione emotiva l’uomo entra in comunicazione con l’uomo per contagio.
La petite musique, la «resa emotiva» sulla pagina è una cattura del «sistema nervoso» del lettore, non della sua ragione; lo trascina nel delirio, non nella condivisione a distanza di astratte verità della coscienza. E in questo contagio – che si insiste a chiamare enigma Céline – non è possibile separare forma e contenuto, salvare il grande stilista separandolo dall’antisemita; separare la nostra buona condotta razionale e morale dalla forza eterogenea che può farla saltare. Qui sta lo scandalo Céline, nell’assumere su di sé il rischio estremo che rivela la minacciosa reversibilità della nostra ragionevolezza, dell’Uomo Vero, Bello e Buono.
Quando nel 1932 uscì il Viaggio al termine della notte, la critica non fu capace di leggervi fino in fondo, e da tutte le parti cercarono di convertire lo scrittore «anarchico» e ancora ambiguo a una Verità in grado di salvarlo da una disperazione che già puzzava di empietà. Da parte della Chiesa cattolica Georges Bernanos cercò «di provare a Céline che il delirio dei suoi personaggi tradiva nell’autore una sete di sovrannaturale». Per la Chiesa marxista Paul Nizan emise la diagnosi che all’autore del Voyage mancasse «la Rivoluzione», mentre Aragon s’incaricò dell’evangelizzazione ingiungendo a Céline «di prendere partito», in tutti i sensi.
Al di fuori di ogni Chiesa, l’unico che seppe cogliere l’esperienza céliniana nascente fu Georges Bataille, il quale capì subito che il Viaggio era «la descrizione dei rapporti che un uomo intrattiene con la propria morte» e che in ciò non differisse granché «dalla meditazione monacale di fronte ad un teschio».
Dalla prima prova, infatti, e sempre più, quello di Céline sarà un lavoro di «acrobata» sul «filo della morte», un lavoro che ha sempre cercato (anche se non sempre è riuscito) di tenere aperto il lavoro della Morte eccedendo l’ordine economico della Verità, fino alla cecità. Per Rigodon, il suo ultimo libro pubblicato postumo, Céline aveva appunto pensato un altro titolo, Colin-maillard, mosca cieca, e lo descriveva come una «divagazione attraverso un paesaggio» della modernità.
Céline parla e scrive all’altezza del pericolo, del corpo esposto nudo al portato necessario della Modernità, cioè, per lui, la distruzione tecnica e la violenza di massa, nella quale la possibilità di una letteratura realistica o engagé è assolutamente fuori corso. Scrive Céline nel suo unico intervento letterario in omaggio a Zola: «All’Esposizione del 1900 eravamo ancora molto piccoli, ma abbiamo serbato lo stesso il vivo ricordo di un’enorme brutalità. Piedi, soprattutto, piedi dappertutto e nuvole di polvere così spesse che si poteva toccarle. Interminabili file di gente, che si pigiava, che schiacciava l’Esposizione, e poi quel marciapiede mobile che cigolava fino alla galleria delle macchine, piena, per la prima volta, di metalli in tortura, minacce colossali, catastrofi incombenti. La vita moderna cominciava». Con le sue contraddizioni.
Pierre-André Taquieff, Annick Duraffour
Céline, la race, le juif
Fayard, 2017, 1182 pp., € 36