I trapper. I Ferragnez sui social. Temptation Island in tv. Pierluigi Diaco che piange su Rai1. Mario Giordano che urla Donatoooooo. La politica diventata una branca dello show business. Cosa hanno in comune queste cose? Condividono un’estetica comune. Negli ultimi mesi sono usciti due libri che hanno ripreso il dibattito sull’estetica trash: Claudio Giunta ha scritto Le alternative non esistono (Il Mulino) un profilo culturale su Tommaso Labranca, che finora ha dato la miglior definizione di cosa sia il trash. Gabriele Ferraresi, giornalista e scrittore, è uscito con Mad in Italy (Il Saggiatore) che ripercorre gli ultimi quattro decenni della tv italiana, guardandola dalla lente deformata del trash, per descrivere come si sono visti e raccontati gli italiani. Dai paninari alla Milano da bere di De Michelis. Questo però è il passato, come si è evoluto il trash nel presente?
Ricordiamo la definizione data da Tommaso Labranca sul trash: “il tentativo fallito di emulazione di un modello alto”. L’esempio più classico è il sosia di Elvis che solitamente mette malinconia solo a guardarlo. Oppure i tamarri provinciali convinti di essere eleganti con la camicia nella tuta. Quel trash immortalato da quel briccone fenomenale di John Waters nei suoi film. Il Trash Glam è qualcos’altro, è la sua evoluzione. Si tratta dell’ostentazione tamarra di chi “ha fatto i soldi” imitando gente che vestiva davvero male, per mancanza di consapevolezza o di soldi. In pratica è una parodia della povera gente. La pelliccia rosa o i glitter, lungi dall’essere rivoluzionari, sono una presa in giro post-ironica, diventano consapevolmente un pugno nell’occhio, come i tamarri cantati da Tony Tammaro. La differenza è che il vero tamarro era inconsapevole di esserlo, anzi era convinto di essere molto elegante e attraente. Il Trash Glam è il tentativo riuscito di emulazione di un modello basso. Il famoso incontro tra alto e basso ha prodotto il medio, ora non c’è più né sopra né sotto. Nell’era del riciclato sicuro la spazzatura diventa glam. Se siamo nella discarica della storia fare schifo è il nuovo essere cool. Il trapper non deve saper cantare, suonare o scrivere le canzoni, gli basta “essere un personaggio” ovvero atteggiarsi, mettersi in posa ed esibire tutto. Questo ragionamento non vale solo per i trapper. Anche i contenuti delle canzoni “indie” hanno lo stesso grado di stucchevolezza. Ovviamente c’è ancora tanta roba che si salva e ci salva.
Nel punto d’approdo a cui siamo giunti non ha più importanza il giudizio etico o estetico su una performance. Non c’è più metro, canone o classifica che possa dircelo. L’unica cosa che si può davvero valutare è l’impatto che un fenomeno culturale ha avuto su un’epoca. Non è possibile tracciare l’estetica di un’epoca mentre la si vive, però si possono intercettare alcune correnti culturali di moda. Se dovessimo immaginare un quadro rappresentativo della tarda modernità, sarebbe composto da tutti gli stili e i generi della storia dell’arte. Un album che volesse racchiudere lo stile di questa epoca, come una summa teologica, probabilmente dovrebbe fare una canzone per ogni genere della musica moderna. Siamo in un centro caotico di tutte le correnti artistiche. Ogni generazione ha avuto un suo genere di riferimento. Gli anni Venti il jazz, gli anni Sessanta il rock, i Settanta il punk, gli Ottanta la new wave, gli anni Novanta il grunge e il rap. Il Duemila ha inaugurato una generazione che avendo la possibilità di rivedere o riascoltare tutto quello che è venuto prima, non ha un genere predefinito ma ha unito vari stili mixandoli, questo ovviamente è dovuto alla memoria della registrazione nell’era della riproduzione di massa.
Dove eravamo rimasti all’inizio degli anni zero? Nell’era del riciclato sicuro, dove venivano riproposte le puntate precedenti a ripetizione. Però bisogna ammettere che quest’atmosfera macabra e gotica è ancora affascinante. Lo ha intercettato Jim Jarmusch nel suo film Solo gli amanti sopravvivono dove si nota da un lato tutta la stanchezza dell’industria culturale e dall’altro l’estetica gotica da fine dei tempi, con due vampiri che osservano annoiati la ripetizione della distruzione nella storia umana. Questa stanchezza secolare veniva denunciata anche nel libro di Simon Reynolds chiamato Retromania che espone una teoria secondo la quale non si produce più nulla di nuovo, ma si ricicla quello che già è stato fatto, è stato abolito l’originale e l’autentico, qualora sia mai esistito, ora abbiamo solo la copia della copia della copia che viene venerata. “Ormai è già stato scritto tutto” è la litania rassegnata che si sente spesso tra gli artisti emergenti o sommersi. Probabilmente hanno torto però ad Hollywood effettivamente non inventano più nulla ci ripropongono da Rocky, Rambo, Indiana Jones, Papillon, La finestra sul cortile, Star Wars, Mission Impossible, Batman, la versione femminile e multiculturale di tutti i cult anni ’80 e così via. Il libro di Reynolds però non coglie nel segno perché incolpa il passatismo di ogni cosa. In realtà è stato proprio il nuovismo a renderci sterili. Era proprio quella smania di tagliare i ponti con tutto, cancellando il passato, che ci ha condannato a ripeterlo. Una volta che hai finito i costumi per provocare, gli effetti speciali per stupire e i messaggi per scioccare se non hai qualcosa da dire o non hai acquisito un po’ di tecnica è davvero difficile tirare fuori dal cilindro qualcosa di interessante. Tutta questa retromania è arrivata come reazione all’obbligo di doversi fingere sempre nuovi. Ci si rifugia nei cimeli del passato come fossero bunker per ignorare quanto sia scadente il presente. Ci si era convinti che il passato potesse scadere come uno yogurt. L’uomo nuovo riciclato nell’indistinto, ha vinto sull’uomo distinto che si è estinto. Un mondo nuovo spento nell’entusiasmo che ricicla tutto spacciandolo per etica ecologista.
Sia il nuovismo che il passatismo commettono lo stesso errore, se ne vanno altrove per non affrontare il presente. Ormai sappiamo grazie a Walter Benjamin che l’aura e l’unicità dell’artista sono scomparse nel momento in cui c’è stata la riproduzione di massa. Nel passato gli artisti erano pochi e l’opera diventava unica anche per la sua irrepetibilità: poteva essere vista solo in un dato momento. Ora il contesto è cambiato, molto semplicemente è collassato. In questo collasso generale dei contesti, quindi anche dei punti di riferimento, è atterrato il Trash Glam (Produzione in serie + caos) che permea la moda culturale del momento. Siamo arrivati all’artista interessato più che altro a vendite e visualizzazioni, che si trasforma da artista in mercante d’arte. Jeff Koons è il risultato di questo esperimento dove l’artista si è fuso con il mercante. Il punto non è giudicare se sia morale o meno ma la qualità dei risultati. Se qualcuno osa criticare questi personaggi, si becca l’accusa di invidioso che non può parlare, perché non vende. Questo è vero moralismo puritano calvinista.
Tornando al punto, questo primitivismo che ha rigettato la tecnica e il significato, si sposa benissimo con il digitale. I nativi digitali possono produrre una canzone senza dover imparare nulla. Il primitivismo digitale è dovuto al fatto che ancora non sappiamo usare bene gli strumenti. Thelonius Monk non sapeva leggere lo spartito, ma buttava il sangue sullo strumento. Non c’era ancora la tecnica ma la dedizione e la vocazione. Se invece il motivo per cui si produce qualcosa è diventare “cool”, è ovvio che l’opera diventa solo uno strumento per esaltarti, un piedistallo su cui ergerti. Ad esempio oggi il trapper deve interpretare un “personaggio” a cui non importa di nulla. In realtà gli importa di tutto dai vestiti firmati, all’ostentazione dei soldi fino alle donne. Chi se ne fregava davvero, come ad esempio i punk, finiva davvero male, sdentato, distrutto psicologicamente e spesso morto, perché se ne fregavano sul serio di tutto. Soprattutto di come apparire. Come Cyrano de Bergerac sembrava voler dire “spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato”. Erano davvero meravigliosamente disgustosi. Citofonare a Syd Vicious o Ian Dury per sapere. Dunque erano gli sfigati all’arrembaggio, che invece di venerare i fighetti, si facevano uno stile personale, fino a diventare i più affascinanti.
Nessuno si vergogna più a giudicare un artista bravo perché vende molto o fa molte visualizzazioni. Oggi un’opera viene premiata “per il messaggio” tendenzialmente sempre uguale, sempre retorico e sempre banalissimo. Ieri dovevano spacciare l’uomo che non deve chiedere mai, oggi quello che deve chiedere sempre. Può darsi che sia sempre stato così come dice Hitchens “all art is propaganda” ma non è una tesi così convincente. Dopo aver fatto fuori il significato e la tecnica, non rimase che la forma luccicante, attraente come i gioielli per le dive. Probabilmente era inevitabile. Uno sformato in perenne trasformazione. Se per Benjamin il fascismo ha estetizzato la politica, il comunismo ha politicizzato l’arte, la nuova egemonia tecnocratica ha fatto entrambe le cose spoliticizzando la vita. In molti sono convinti che questo non sia un dramma, perché la reazione arriverà facendo della vita stessa un capolavoro. In una via di mezzo tra gli esteti alla Wilde dell’arte per l’arte o della vita come capolavoro e il situazionismo con l’abbellimento dell’ambiente geografico. In pratica è come se l’arte per non restare un surrogato alienante, avesse come missione quella di incarnarsi nella vita di tutti i giorni. Non bisogna mai dire che fa tutto schifo, oppure che nulla di buono tornerà. Ma ogni tanto c’è bisogno anche di demolire quello che oggi non va. Tornare indietro per andare avanti, anche se la novità è la cosa più vecchia del mondo, si è capito che nulla si crea e nulla si distrugge, non è stato detto tutto, forse non c’è mai stato nulla da dire, intanto però il Trash Glam presto passerà. Il problema è cosa saprà restare.
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