Nel 642 gli arabi conquistano Alessandria e il califfo Omar ordina la distruzione della Biblioteca con queste parole:
Se i libri custoditi qui dicono ciò che è scritto nel Corano, allora sono inutili; se dicono cose diverse, allora sono sbagliati.
Califfo Omar I
L’evento è uno di quelli che la storiografia non potrà mai accertare, per mancanza di fonti, ma è così emblematico che lo diamo per vero. Emblematico, soprattutto, della differenza fra civiltà tradizionale e civiltà moderna:
L’uomo tradizionale non aveva la stessa esperienza del tempo subentrata nell’uomo moderno: egli aveva una sensazione sovratemporale della temporalità […]. Nella nozione stessa di civiltà tradizionale è insita quella di una equivalenza o omologia delle sue varie forme realizzatesi nello spazio e nel tempo.
Julius Evola
Per il califfo esiste la verità eterna del Corano e poi, come uno specchio, il tempo presente, in cui vive e agisce quella verità. Non c’è la storia. I libri di Alessandria, che siano stati scritti mezzo millennio o un mese prima, appartengono all’oggi, devono essere distrutti perché non sono testimonianze inerti ma accampano anch’essi una pretesa di eternità. Ed è quasi un contrappasso che i distruttori di statue agiscano, senza saperlo, spacciandosi per gli uomini tradizionali di Evola. Tanto in America, come corollario delle proteste antirazziste, quanto in Europa, dove i liberal sono ormai abituati a saltare su qualsiasi carro conduca al grottesco – sembra accendersi una curiosa rabbia iconoclasta.
Alla parola, già abusata, bisogna però fare attenzione: l’iconoclastia è una dottrina teologica dell’ottavo secolo che, per dirla in due parole, considera idolatrico il culto delle immagini sacre. Ci sono dietro le lotte di potere fra gli imperatori bizantini, il patriarcato di Costantinopoli e i monasteri ma, almeno nella sua dimensione ideale, l’iconoclastia riguarda l’ortoprassi religiosa, il modo giusto di pregare per un’epoca in cui la preghiera è una forza reale, capace di guarire le malattie e vincere le guerre. Ma, adesso, non c’è nulla di tanto importante da difendere. Le statue, se abbiamo il coraggio di applicare fino in fondo le logiche del materialismo moderno, sono del tutto innocue, poco più che reperti archeologici lasciati da un certo passato per testimoniare se stesso, con una lingua che non è più la nostra. Stanno lì come sta lì il Colosseo – luogo infernale, ma un inferno troppo lontano per fare ancora notizia – gli studiosi ne prendono atto, i turisti le fotografano, e in fin dei conti non dicono niente.
L’accostamento all’iconoclastia e al pensiero tradizionale fa emergere impietosamente il vuoto di tutto l’attivismo progressista, e del movimento anti-statua che si attesta fra le sue più imbarazzanti – non era facile – incarnazioni. È pleonastico distruggere le statue, perché la modernità ha già distrutto da un pezzo le categorie attraverso cui le statue potevano significare qualcosa: giusto, sbagliato, sacro, verità, eternità. Senza strumenti per costruire un’etica che sopravviva alla stagione, nell’oceano relativista navigano atolli di moralismo modaiolo: già rampanti professionisti dell’indignazione proponevano di rimuovere la statua di Indro Montanelli, e altri, quando saranno inflazionate le attuali ragioni per indignarsi, ne troveranno di nuove alla bisogna – facendo le pulci ad altre icone del presente, magari Paolo Borsellino perché era vicino al Movimento Sociale, o don Gallo perché era prete. Tutto fa brodo se non c’è limite, coerenza, filosofia al di là del virtue signalling. Ieri era l’ecologia, oggi è l’uguaglianza etnica: questioni comunque troppo importanti perché se ne occupino gli hipster convinti che la rivoluzione serva a farli sembrare più magri, per dirla con Gil Scott-Heron.
Intendiamoci, però: sarebbe bello se potessimo guardare negli occhi il Montanelli di bronzo e dirgli che non ci rappresenta più, perché il mondo è cambiato. Solo che il turismo sessuale minorile è in crescita costante, e gli italiani ne detengono il primato. Sarebbe bello dire al mercante di schiavi Colston che abbiamo rinnegato i suoi commerci. Solo che i nostri migranti lavorano nei campi 92 ore alla settimana, sette giorni su sette:
In realtà, il mondo non migliora mai. L’idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse […]. Dunque, uno dei modi per essere utili al mondo è dire chiaro e tondo che il mondo non migliorerà mai.
Pier Paolo Pasolini
Se gli attivisti di mestiere lo riconoscessero, magari si attiverebbero per evitare che il mondo peggiori, come avverte appunto Pasolini. Invece si dilettano col design urbano e arredano il mondo come se fosse migliorato davvero, armeggiando coi soprammobili. Anche se non è cambiato niente. Perché è comodo, non implica pensiero e sforzo, perché le statue sono materialmente indifese e lo sono anche concettualmente, nell’epoca senza sacralità. Più a fondo, perché abbattere una statua, così come erigerla, non è solo un atto politico, ma soprattutto il segno di una condizione psicologica. C’è questo disperato bisogno di immortalità simbolica, dobbiamo credere che il nostro mondo, coi suoi valori, col suo ordine, sia destinato a sopravvivere, e noi con lui. Il distruttore e il costruttore, compiono entrambi un atto di fede: credono che un’epoca sola possa decidere per tutte, per il passato o per il futuro.
Le statue non sono storia di ciò che rappresentano, ma storia di chi le ha scelte e collocate: il loro abbattimento è, ugualmente, storia di chi le abbatte. Entrambi i gesti manifestano la stessa arroganza, e un mondo migliore – il mondo che non verrà mai – sarebbe un mondo senza statue, nemmeno una. Un mondo che accetta la propria radicale insufficienza, la mortalità di simboli ed eroi, i limiti dei maestri, perché “nessuno è buono, se non Dio solo”. Certo non lo è chi processa le statue per fare una statua ideale a se stesso. Jorge Luis Borges – candidato anche lui alla vandalizzazione postuma per via di un pranzo con Pinochet – scrive:
“Ma i giorni sono una rete di comuni miserie,
e c’è sorte migliore della cenere
di cui è fatto l’oblio?
Su altri gettarono gli dei
l’inesorabile luce della gloria, che guarda nell’intimo ed enumera ogni crepa,
della gloria, che finisce col far avvizzire la rosa che venera;
con te, fratello, furono pietosi.”
Jorge Luis Borges