Il Collettivo “Luigi Di Maio” esce in libreria con l’opera Un amore chiamato politica. Lo chiamo Collettivo perché mi auguro che non ci sia nessuno che creda davvero che il Nostro abbia fatto interamente da solo, impegnatissimo com’è a farsi fotografare tutto il giorno alle spalle di Draghi. Difficile immaginarlo chino sul desco, nelle fredde sere romane, avvolto in una copertina di flanella, intento a raccogliere i ricordi di una (giovane) vita. È chiaro che tra ghost-writers, intervistatori, editor (pessimi, tra l’altro, considerati i refusi e la consecutio, vedi “io non sono omosessuale, ma se lo fossi stato non l’avrei vissuta come una colpa”) e chissà chi altri ancora, il testo è opera collettiva.
Perché pubblicare, dunque? A sentir lui, è quasi un dovere ineludibile, visto che nella Storia (a volte scritta maiuscola, a volte no) lui c’era: “Io non sono stato un semplice testimone. Io posso raccontarvi come è andata veramente”. A Di Maio sfugge che raccontare come è andata veramente è appunto l’unico compito di un testimone, ma non sottilizziamo. Diciamo allora subito che come documento storico di testimonianza non vale un accidente; come manuale politico, figuriamoci. Come ennesima puntata di Storia di un italiano, invece, è tutto un altro discorso. Qui siamo veramente di fronte a un redivivo Alberto Sordi, in una delle sue migliori interpretazioni.
Il compito prefisso potrebbe sembrare difficile: rinnegare tutto quel che si è stati fino a un attimo prima senza dare la sensazione di farlo, tentando nel frattempo di accreditarsi nel migliore dei modi per il futuro e per i suoi vincitori. Ma tutto diventa molto più semplice se si pensa che quest’esercizio di trasformismo è l’unico in cui nessun Paese al mondo può sperare di competere con noi – qui l’oro è sempre garantito. Di Maio è soltanto l’ultimo campione, in ordine di apparizione, di una schiatta antichissima.
Con quest’opera, Di Maio dimostra di non essere un cinquostello qualunque: è mille volte più furbo di tutti gli altri. Per una serie di combinazioni fortuite che hanno del clamoroso (ma che talvolta ricorrono), si è ritrovato a ricoprire ruoli importanti. Senza preparazione, senza capacità, niente. E si è reso conto che quei ruoli non sono affatto male. Non sarà intelligente, ma è furbo – intendendo la furbizia come un sottoprodotto dell’intelligenza. Il fatto è che adesso si trova lì, e sa benissimo che ben difficilmente, in futuro, il Movimento (da solo) potrà di nuovo garantirgli ciò che ha conosciuto in questi anni. Meglio dunque smarcarsi per tempo, evitando di compromettersi di nuovo. Ed è una cosa che sta facendo benissimo. Draghi premier? E lui sta tre passi dietro – si fa fotografare, ma non si permette di uscire dal seminato (seminato da Draghi). E Mattarella, quello per cui aveva chiesto l’impeachment?
“Già mentre pronunciavo quelle parole compresi che c’era qualcosa che non andava. Non erano mie. Non era mio lo spirito, lo stile. (…) La più grossa sciocchezza politica che io abbia mai fatto e che non ricordo affatto con orgoglio”.
I maggiorenti del Piddì, già tutti pidioti? Be’, non certo Franceschini:
“Uno dei politici più lucidi e intelligenti che abbia mai conosciuto”.
Certo, lui in politica ha cominciato con Grillo. Che cosa rappresenta Beppe, adesso, per lui? Prima un colpo di qua, per cui il suo vecchio mentore è “(…) una specie di luce d’emergenza che si accende appena ti ritrovi al buio, quando sei solo e disorientato. E allora Beppe ti viene in soccorso, ti indica la strada da prendere, ti consiglia il da farsi”. Solo che, mentre si perde in questa visione messianica del comico genovese, Giggino piazza un secondo colpo, diverso, che la dice lunghissima su cosa ci attende in futuro. Arriva infatti a formulare un’ardita similitudine tra Grillo e Jep Gambardella, per cui il primo “non ha solo il potere di organizzare e partecipare al Movimento, Beppe ha il potere di farlo fallire”. E Di Maio non ha alcuna intenzione di farsi trovare a bordo del Titanic, quando sarà. E lui evidentemente sospetta che non manchi molto.
Rinnegare, dunque – rinnegare tutto e tutti. Con i dovuti modi, ma ben più di tre volte. Perché Di Maio dice di essere cambiato. E dunque parla di sé come qualcuno “alle prese con un mestiere bello e difficile”. Quindi la politica è un mestiere, a tutti gli effetti. Giravolta mica male, questa, per chi ha cominciato come lui. Ma giustificata:
“Ho compreso che non basta dire che “uno vale uno” e che è pericoloso lasciar credere che chiunque possa occuparsi della cosa pubblica. Non tutti sono in grado di rappresentare dignitosamente le istituzioni”.
Lui evidentemente pensa di potercela fare, e per questo si sta preparando a non schiodare mai. Altro che il limite dei due mandati, oltre allo spassoso ricamino del mandato zero (cose di cui, tra l’altro, non si parla affatto). Come si dice: hic manebimus optime. E state certi che rimarrà. Perché adesso sa cosa occorre: “Ho compreso che ogni politica ha bisogno di una scuola, che l’umiltà e lo studio vincono su ogni tipo di improvvisazione”. (Fai la giravolta: falla un’altra volta, ti prego).
Nonostante la dichiarata umiltà, Di Maio non riesce tuttavia a nascondere manie di grandezza preoccupanti. Come quando si trova a Palinuro:
“In quella spiaggia dove all’età di undici anni mi chiedevo cosa avrei fatto da grande, decisi il destino del nuovo governo”.
Un passaggio che forse andrebbe letto ad alta voce, immaginando Napoleone che a Sant’Elena contempla l’oceano e intanto detta le sue memorie. Un certo cesarismo – da reuccio taumaturgo –, in effetti, trasuda. Come non pensare a qualche imperatore romano, di fronte a cose come:
“C’era chi cercava con insistenza il mio sguardo, chi mi toccava per ricevere attenzione, chi mi seguiva dappertutto e mi chiamava con il mio nome.
Luigi. Luigi. Luigi.
Ero io”.
(Andiamo qui a capo con il testo, perché è parte del divertimento). Scene che ritornano, comunque:
“Quando raggiunsi il palco si levarono grida e acclamazioni. «Luigi, Luigi, Luigi» e applausi, lunghi applausi (…) Chiusi il mio intervento con l’iconico gesto di togliermi la cravatta”.
Un gesto addirittura iconico, come si vede.
Una cosa che può sembrare buffa, ma c’è di meglio. Alcuni passaggi sembrano usciti direttamente dalla penna di Snoopy: “Era un giorno piuttosto freddo, stavo lavorando con la mia solita passione”, “Intanto l’afa romana, per me che il 7 agosto ero ancora a Palazzo Chigi a lavorare, diventava insopportabile (…) Sembrava che anche i muri sudassero. Trasudavano secoli di tradimenti, congiure e brama di potere”. E chissà che faceva, nel frattempo, il Barone Rosso sul suo Sopwith Camel.
L’anno al governo insieme a Salvini? “Pesò sulle mie spalle come un decennio. Comparvero i primi capelli bianchi”. I-primi-capelli-bianchi. Sarebbe bello, al riguardo, conoscere il parere del grande capo indiano Estiqaatsi.
Questo non è un libro, è una PEC inviata al mondo che conta, al tanto contestato establishment: so benissimo di aver fatto e detto un mucchio di scemenze. Siccome però sono cambiato e ho imparato un sacco di cose, non buttatemi via (per favore). In compenso, confesserò in pubblico i miei peccati. Come quella volta del reddito di cittadinanza: “Sì, sbagliai a salire su quel balcone. E sbagliai a pronunciare quelle parole (“Abbiamo abolito la povertà”). La povertà non si può abolire (ma va’?), la povertà non si può giudicare (ma nemmeno per dire che non è una gran cosa?), va solo ascoltata e accolta (accolta?!?), con sobrietà d’animo”. Con sobrietà d’animo, dunque: e qui, davvero, uno perde le parole.
In mezzo a tutto questo, frasi banalissime che vorrebbero essere a effetto, veri baciperugini della politica:
“Il potere può anche cambiarti, può sicuramente distruggerti”;
“Ho sempre pensato che o si cambia Paese o si cambia il Paese”:
“In questi anni, sono in molti ad averci accusati di essere cambiati, forse è vero, ma siamo anche noi ad aver cambiato loro”.
E qualche ossessione ritornante, come quella per cui la Storia debba prima o poi dargli ragione:
“Mi ero seduto dalla parte giusta della storia, con una grande e faticosa opera di autoconvincimento. Ma ce l’avevo fatta”;
“Sapevo che le due leggi avrebbero funzionato, che prima o poi la storia mi avrebbe dato ragione”.
Che poi questa è una frase che Biden ha pronunciato riferendosi al ritiro dall’Afghanistan (quindi dopo la chiusura del libro, avvenuta ad agosto), ma che in Italia siamo da sempre abituati ad associare al Duce. Cosa che probabilmente il Collettivo Di Maio ignora, visto il bisogno di Luigi di riconoscimenti a sinistra.
Che rimane, dunque, dell’epopea cinquostella, secondo uno dei suoi massimi esponenti? Come detto, da queste pagine non emerge una vera fiducia nella ripresa della lotta. Quel che sarà, sembra di capire, non riguarderà tanto il Movimento, ma lui stesso.
“Perché è così che va a finire con le rivoluzioni. Prima c’è il caos, poi la battaglia, infine il silenzio. E dopo il silenzio, la rinascita”.
Ed è chiarissimo che Di Maio non rinascerà cervo a primavera, ma riciclato in qualche istituzione, nazionale o probabilmente internazionale. Vita natural durante, da gran furbacchione quale lui certamente ha dimostrato di essere.