FRANCESCA CAFERRI
«La letteratura siriana oggi è una letteratura di resistenza. In un momento in cui la Siria, come Stato, è minacciata di estinzione, sono i libri che ci permettono di capire come si è arrivati fino a questo punto». Poche parole del grande intellettuale damasceno Farouk Mardam- Bey, da anni esule a Parigi, raccontano quello che sta accadendo nelle librerie italiane. Trascurata per anni, la letteratura siriana diventa ora protagonista: un titolo in uscita, due pubblicati da poco, altri in via di traduzione
e in arrivo nei prossimi mesi. In tutti i casi, autori che chi segue il settore considera come le voci più rappresentative della realtà siriana di oggi. «Per anni gli scrittori sono stati costretti a tacere: questa nazione ha vissuto per mezzo secolo in stato di emergenza, con una censura fortissima, in cui il massimo che si poteva fare era raccontare quello che accadeva ponendolo nel passato e su un piano individuale. Il 2011 ha cambiato tutto: la rivoluzione ha dato alle voci della Siria la possibilità di esprimersi. E ora finalmente anche in Italia le ascolteremo», spiega Elisabetta Bartuli, traduttrice ed esperta di letteratura araba contemporanea.
A scorrere i cataloghi è difficile darle torto. L’ultima ad arrivare nelle librerie in ordine cronologico è Samar Yabzek con il suo Passaggi in Siria, appena edito da Sellerio: 47 anni, scrittrice e autrice televisiva di successo prima dello scoppio della rivoluzione, Yabzek ha scelto di raccontare le storie di quelli che alla possibilità di un cambiamento pacifico avevano creduto, e in particolare delle donne: non a caso il libro è dedicato «ai martiri traditi della rivoluzione siriana». Per le sue critiche e ancor di più perché ha avuto il coraggio di farle pur essendo, come Assad, alawita, la scrittrice è stata costretta ad andare in esilio. Passaggi in Siria, tradotto in più di dieci lingue e pluripremiato, narra dei viaggi clandestini attraverso la frontiera turca per raccontare la vita nella parte di Paese libera dal giogo del regime: sono pagine dure, lontanissime dalla sua scrittura precedente. Ci sono bimbe paralizzate nei loro letti di ospedale dai proiettili dei cecchini, madri a cui sono stati strappati i figli dalle braccia e hanno potuto riabbracciarli solo cadaveri, famiglie che lottano per mantenere la dignità in un mondo diventato improvvisamente ostile.
Alla rovina del suo Paese, Yabzek non si è mai rassegnata: ha fondato una ong dedicata alle donne e di donne continua a parlare. «Messe di fronte a violenze di ogni tipo, dal radicalismo religioso ai crimini di Assad, passando per le tragedie della guerra, le siriane continuano a lottare su un cammino che alla fine porterà libertà, dignità e giustizia. Ma è un cammino ancora lungo», dice.
Chi la violenza l’ha sperimentata sulla sua pelle e l’ha trascritta in versi è Faraj Bayrakdar, dissidente e poeta che ha passato quattordici anni in carcere per le sue idee. La sua raccolta Il luogo stretto (edizioni nottetempo), è un inno alla libertà e alla resistenza, composto in assenza di penne e matite, mandando a memoria i versi con l’aiuto dei compagni di cella. «Se fossi stato solo un oppositore avrebbero potuto spezzarmi, ma la poesia mi ha salvato», ha raccontato qualche settimana fa alla platea del Festivaletteratura di Mantova, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi.
A Mantova, Bayrakdar ha ragionato del potere politico della scrittura nella Siria di oggi: «Ricordo che in cella i miei compagni dicevano che non c’era nulla da aspettarsi da giovani cresciuti sotto la dittatura degli Assad, vittime del lavaggio di cervello del regime. Ma quando sono uscito ho partecipato a una serata letteraria e ho incontrato sei giovani poeti: tutti sono venuti a salutarmi, sapendo bene cosa rischiavano facendosi vedere con me. Tutti conoscevano i miei versi. È stato allora che ho capito che la libertà di leggere, di vedere quello che accadeva nel mondo che Internet ha donato a questi ragazzi ci avrebbe portato lontano. Avevo ragione: i ragazzi hanno letto e sono scesi in strada. Seicentomila manifestanti non hanno avuto paura di morire per la libertà: la maggior parte erano giovani». Come quelli di cui parla Rosa Yassin Hassan ne I guardiani dell’aria (Poiesis), uscito a primavera: un racconto senza illusioni su quello che prigione e tortura possono fare anche al più grande degli amori.
Attesissimo è il ritorno di Khaled Khalifa, autore dell’acclamato Elogio dell’odio, a marzo in libreria con Non ci sono coltelli in cucina (Bompiani), una saga familiare ambientata ad Aleppo degli anni Sessanta che spiega un concetto chiave per capire la Siria di oggi: ovvero che nel 2011 i siriani non si sono rivoltati contro uno Stato moderno e funzionante, come si è spesso detto, ma contro una brutale dittatura che a lungo ha usato anche le sfere più private delle vite dei cittadini per controllarli e dominarli. Khalifa è uno dei pochi scrittori che ha scelto di rimanere a vivere a Damasco: protetto, nonostante le sue parole critiche verso il governo, dalla fama internazionale. «È casa mia, ho scelto dal primo giorno di non andare via — racconta — abbiamo già perso troppe persone: perché sono morte o sono fuggite. L’idea del pericolo ormai non mi fa più paura: non fa paura a nessuno di noi siriani, che viviamo circondati dalla morte». Inevitabile chiedergli delle conseguenze sulla sua scrittura: «Francamente non lo so — risponde — tutti dicono che è cambiata, è più spezzata: io so che è più sofferta. La mia vita, come quella di tutti, dal 2011 non è più la stessa: ma mi serve tempo per capire cosa è diventata». A sfogliare le pagine di Non ci sono coltelli in cucina è chiaro il peso del passato nella narrazione del presente. Un tema che accomuna Khalifa a Dima Wannous: il suo Gli impauriti, ritratto della generazione dei trentenni di oggi e della sua crescita nella Siria di Hafez Al Assad prima e di Bashar poi, uscirà a gennaio. Un romanzo «eccellente », nelle parole del grande scrittore libanese Elias Khoury.