ROBERTO SANI, “LA STORIA DELL’ARTE COME DISCIPLINA SCOLASTICA. DAL PRIMO NOVECENTO AL SECONDO DOPOGUERRA”, EUM (EDIZIONI DELL’UNIVERSITÀ DI MACERATA). Una faticosa emancipazione quale materia scolastica, prima e dopo la Riforma Gentile, nel segno del «saper vedere»: il problema, da Adolfo Venturi ad Argan, è inquadrato dal punto di vista delle scienze dell’educazione
Annamaria Ducci
«Da “Cenerentola” a “parente pauvre” dell’insegnamento liceale». Questo il titolo eloquente dell’ultimo capitolo del bel libro di Roberto Sani, La Storia dell’arte come disciplina scolastica Dal primo Novecento al secondo dopoguerra (EUM, Edizioni dell’Università di Macerata, pp. 256, euro 20,00). Il libro ripercorre l’affermazione della storia dell’arte come materia scolastica nel secolo scorso: una difficile imposizione, come esprimono le disincantate espressioni – «Cenerentola» e «parente pauvre», appunto – rispettivamente di Adolfo Venturi e di Roberto Longhi.
Negli ultimi vent’anni questo tema ha conosciuto un crescente interesse, con gli studi di storici dell’arte come Massimo Ferretti, Elena Franchi, Irene Baldriga, per fare solo alcuni nomi. Sani lo affronta invece dalla prospettiva di uno storico dell’educazione, con un’attenzione particolare alle normative giuridiche e al loro impatto sulle istituzioni scolastiche. Di quella lunga vicenda l’autore rende conto riportando gli accesi dibattiti parlamentari, le invettive degli intellettuali, le resistenze dei politici, fornendo con estrema precisione rinvii a circolari, leggi, decreti e regolamenti, ma anche documenti inediti, in buona parte riportati in extenso nella ricca Appendice documentaria. In tal modo anche i dibattiti teorici inerenti i programmi, la storia ‘materiale’ degli strumenti didattici ne escono rinforzati, alcuni protagonisti risaltano con maggior nettezza.
Materia ancillare – ora della storia, ora della letteratura –, occasione di diletto o orpello decorativo dell’educazione ottocentesca intrisa di sentimentalismi, fu solo ai primi del Novecento, con l’operato di Adolfo Venturi (dal 1901 titolare della prima cattedra italiana di Storia dell’arte medievale e moderna alla Sapienza), con i suoi reiterati appelli sulle pagine de «L’Arte» e dal 1924 anche come senatore del Regno, che alla disciplina si riconobbe uno statuto autonomo, affermandone il ruolo centrale per la formazione dei giovani italiani. Momento cardine di questa storia fu la Riforma Gentile del 1923, che introdusse definitivamente la materia come obbligatoria nei licei classici, e come facoltativa nel nuovo Liceo femminile: con una specifica significativa, perché qui si doveva insistere maggiormente sulle «cosiddette arti decorative considerata la funzione che la donna assume nell’ordinamento estetico della casa». Si trattava ancora di insegnamenti conferiti «per incarico» dai presidi, una situazione di estrema precarietà di cui avranno a soffrire numerosi allievi – soprattutto donne – di Venturi.
Nell’elaborazione dei programmi Gentile fu affiancato da Ugo Ojetti, che vi introdusse elementi di aperto nazionalismo: «Arte italiana, soltanto – scriveva nel giugno del ’23 al ministro –. Voglio dire che dell’arte greca rispetto all’Etruria o a Roma, rispetto cioè all’Italia, si dovrebbe secondo questo programma insegnare quel tanto che occorre a capire l’arte antica in Italia: quanto ad esempio si deve insegnare dell’arte gotica francese per capire l’arte nostra del due-trecento». Come ben arguisce Sani, questo sodalizio tra i due dovette provocare un allontanamento di Venturi, «scarsamente coinvolto nell’opera di riordinamento della scuola italiana avviata da Gentile». Tuttavia un elemento del pensiero del professore della Sapienza era confluito nei provvedimenti gentiliani, ovvero l’esigenza di educare i giovani a «guardare un’opera d’arte», espressione che riecheggia il celebre «vedere e rivedere» di Venturi, seppur con una non trascurabile sfumatura semantica: guardare, infatti, non significava automaticamente «saper vedere», ovvero padroneggiare quella grammatica visiva su cui tanto insisteranno gli storici dell’arte a partire dagli anni trenta e fino ai sessanta.
Il problema si poneva soprattutto a livello degli strumenti didattici, ovvero i cosiddetti manuali, ma anche i necessari complementi visivi, atlanti, fotografie. Il quarto decennio del Novecento fu molto prolifico sul versante dei libri di testo per i licei, che si volevano adesso al contempo esaustivi ed agili. Fu così che lo stesso Adolfo Venturi pubblicò un compendio della sua monumentale Storia dell’arte (1924), seguito da numerosissime pubblicazioni, di Ugo Ojetti e Luigi Dami (1924-’33), di Paolo D’Ancona, Fernanda Wittgens e Irene Cattaneo (1930-’33), Augusta Ghidiglia Quintavalle (1933-’34), Mary Pittaluga (1937-’38), ma soprattutto da un primo manuale che il giovane Giulio Carlo Argan (allora in forze alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti) pubblicò assieme all’archeologo Pirro Marconi tra il 1936 e il 1938.
Dopo quelli del 1930 e del 1933, fu determinante il nuovo riordino dei programmi per i licei del 1936, esito dei lavori di una Commissione in cui figurava ancora come princeps Ojetti, ma in realtà in gran parte – sottolinea Sani – frutto del pensiero di Argan. Il testo che ne derivò si presentava complesso. Nei toni altisonanti fondati sull’idea della «continuità» tra la Roma antica e l’Italia fascista, e sul «primato» italico nel campo dell’arte, il provvedimento insisteva che «scopo dell’insegnamento di storia dell’arte è quello di educare l’alunno a ‘vedere’ l’opera d’arte nelle sue qualità intrinseche e a intenderne il valore ideale». Per questo si sosteneva l’imprescindibile momento dell’apprendimento sulle immagini, perché «la presentazione delle opere d’arte vale per l’insegnamento della storia dell’arte come per l’insegnamento della letteratura la lettura dei testi». Al contempo si incoraggiava a mettere in luce le relazioni tra le arti figurative e il contesto politico e culturale in senso ampio, elemento che avrebbe costituito la novità della Storia dell’arte di Argan, pubblicata a partire dal 1968 e dal suo autore definita come «un libro di cultura per la scuola».
Nel clima di ricostruzione materiale e morale del Paese sulle macerie della seconda guerra mondiale, si infittirono gli sforzi per adeguare la didattica della storia dell’arte a un’Italia che avrebbe dovuto rinnovarsi. Il primo risultato fu finalmente l’istituzione delle cattedre nei licei classici, con un decreto varato nel 1948 dal ministro DC Guido Gonella, sospinto dagli interventi del corpo docente universitario sempre più convinto della centralità della formazione liceale, e all’interno di un più generale progetto di riforma dell’istruzione. Solo due anni dopo si costituiva la ANIMSA (Associazione Insegnanti Medi di Storia dell’Arte, poi confluita nella odierna ANISA), che promosse una serie di inchieste e dibattiti, fortemente sostenuta dagli storici dell’arte universitari.
Tra questi Longhi, che nel 1962 auspicava una «cultura artistica per tutti», e Carlo Ludovico Ragghianti, che già dal decennio precedente interveniva a più riprese dalle pagine di «SeleArte» e della «Critica d’arte» per ribaltare i metodi d’insegnamento, abbandonando «la logica dell’insegnamento nozionistico», auspicando invece la collaborazione con pedagogisti per sviluppare anche nel campo della educazione artistica un reale senso critico. Per fare questo era necessario, a suo dire, «che l’esperienza del linguaggio artistico (come di quello musicale), sia continua, dalla scuola materna al liceo». Due anni dopo Ragghianti precisava il suo intendimento: l’insegnamento della cultura artistica nella scuola – e sottolineiamo scuola pubblica – era indispensabile per «costituire nella coscienza della collettività un più alto senso del rispetto e della tutela del patrimonio artistico e paesistico nazionale».
Erano gli anni del grande cantiere della Commissione Franceschini «per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio», che avrebbe imposto definitivamente nel nostro Paese la nozione di bene culturale, ma soprattutto l’idea di una interconnessione imprescindibile tra insegnamento della storia dell’arte ed educazione al patrimonio. Il decennio successivo ne avrebbe fatto tesoro, con le straordinarie campagne di catalogazione condotte sul territorio da una generazione di agguerriti funzionari di Soprintendenza, basate sul principio ineludibile che non può esservi tutela senza conoscenza. Il libro di Roberto Sani si arresta al Sessantotto, vero punto di svolta per il riconoscimento della materia nella scuola italiana, ma la lunga storia che ci racconta è memoria viva per i tempi di oggi.
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