L’assurda richiesta di avere le opere di Daniele da Volterra comprate dagli Uffizi
di Roberto Barzanti
L’ acquisizione da parte degli Uffizi della «Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara» di Daniele Ricciarelli, noto come Daniele da Volterra, ha suscitato a Siena un vespaio. Il quadro era in mostra alla recente edizione della Biennale Internazionale dell’Antiquariato nelle stanze di palazzo Corsini, sul lungarno che ne porta il nome a Firenze.
Erich Dieter Schmidt, attuando atti deliberativi del Cda della Galleria, del suo Comitato scientifico e dello stesso Mibact (Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo), ha concretizzato le procedure necessarie a definirne l’acquisto, finanziato per una cifra sui due milioni di euro con risorse sia del Museo fiorentino sia, per un quarto, dalle casse romane.
Così la Madonna, eseguita attorno al 1548, troverà degna collocazione accanto all’Elia nel deserto (1543 circa), già acquistato dalla stessa galleria Benappi l’anno precedente, e, insieme alla Strage degli innocenti (1557), sempre del bravo ma lentissimo – a dire del Vasari – volteranno, comporrà un magnifico trio, funzionalmente contestuale alla sezione dedicata a Michelangelo. Del quale Daniele fu stretto amico a collaboratore fedelissimo, al punto che ricevette dal pontefice Pio IV l’incarico di censurare, in ossequio alle indicazioni promulgate dal Concilio di Trento, le figure più scandalosamente nude dell’immensa parete del Giudizio finale della Sistina. Improba fatica, interrotta (per fortuna) a causa della morte del Papa e del conseguente adattamento della cappella al conclave. E Daniele divenne famoso con il nomignolo di «Braghettone», affibbiatogli per il complicato incarico ricevuto. Sia lo sfinito Elia che la soave Madonna sono stati da ultimo proprietà della famiglia senese dei conti Pannocchieschi d’Elci, nel cui palazzo erano tardivamente approdati nel 1888, per via matrimoniale, allorché un discendente dell’artista, Guglielmo Ricciarelli, sposò una Laura Pannocchieschi. Prendendo le mosse da questo esile elemento cronologico alcuni senesi – 46 per la cronaca – hanno lanciato un appello per chiedere che le opere, finalmente visibili al pubblico, siano collocate, magari in generoso deposito, nella Pinacoteca Nazionale della città. E il sindaco De Mossi ha promesso di incontrarsi con Schmidt per dipanare la faccenda. Da parte di taluni non sono mancati toni spiacevolmente campanilistici: «Quei dipinti sono nostri!». Eppure si dovrebbe tener conto che le battaglie prive di fondamenti giuridici e scientifici è meglio non ingaggiarle, perché rischiano di produrre solo lamentazioni vane e ridicole. Quanto al profilo storico-artistico chi ha l’autorità e le competenze per lumeggiarlo fa osservare che lo stile di Daniele non ha alcun rapporto con quanto avveniva in Siena nel periodo in cui le discusse opere furono concepite. A dominare erano, piuttosto, il Sodoma e ancor più il Beccafumi.
Appare pertanto pretestuosa e di corto respiro la controversia suscitata. Più che Siena potrebbe vantare un qualche diritto culturale ad averli Volterra, considerando che le opere provengono direttamente dalla casa del pittore e sono pertanto quanto resta della sua collezione. Ma non è il caso di scatenare assurde lotte di campanile fra Comuni toscani. Una degna destinazione per i due splendidi dipinti è quella individuata, tanto più che l’acquisizione si è resa possibile grazie agli introiti dei biglietti degli Uffizi. Il Mibact vi sta contribuendo – si dice – solo per un quarto dell’intera cifra. La Soprintendenza di Siena ha fatto il suo dovere vincolando nel 1979 le due opere, indipendentemente l’una dall’altra, impedendo dunque che fuoruscissero dal territorio nazionale. Un vincolo «pertinenziale», che assicurasse cioè la permanenza in situ , non avrebbe avuto basi filologiche.
Chiarito il tema, rimane da spiegare perché si sia sollevato tanto rumore. Le polemiche a vuoto nascondono spesso questioni reali o cercano di farle dimenticare. Lo scandalo vero cui ribellarsi – ma non se n’è avuto sentore – è stato aver inserito la Pinacoteca senese nell’ammucchiata dei 49 siti ricompresi nel cosiddetto Polo museale della Toscana. Le responsabilità di una tale degradazione sono molte e non certo imputabili al governo comunale insediatosi da poco più di un anno. Fatto è che per inammissibili ritardi, dispersione di risorse, dissensi ministeriali, mugugni sindacali, pigrizie politiche non è decollato il progetto di trasferimento e ristrutturazione della Pinacoteca Galleria (costretta e marginalizzata nei palazzi Brigidi e Buonsignori) messo a punto con l’apporto di Cesare Brandi, Giovanni Previtali, Giuliano Briganti e caldeggiato dal Comune fino alle soglie del 2000. Ora è stato ripreso in mano e converrà riformularlo se persiste il rifiuto ministeriale di allocarvi la Pinacoteca almeno nelle sue articolazioni essenziali. Una commissione insediata dal Comune è al lavoro è c’è da augurarsi che partorisca (o rispolveri) presto un’idea che circola da anni: fare del Santa Maria della Scala una Fondazione che ospiti anche al suo interno, con debita convenzione, la Pinacoteca stessa e si qualifichi per la sua permanente offerta museale e quale centro culturale moderno, dotato dell’autonomia indispensabile per farne soggetto internazionale in grado di produrre sistematicamente ricerche, scambi, programmi e prototipi di alto livello.
La collaborazione con gli Uffizi sarebbe certo un riferimento non incidentale. È su questo terreno che ci si deve misurare e non inseguendo farfalle. Viene in mente per metafora un passo del Vangelo di Luca (6, 42): togli la trave dal tuo occhio prima di curarti della pagliuzza che sta nell’occhio del fratello. E qui neppure una pagliuzza è in gioco.