A 30 anni da Capaci, tragica fine delle vite di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, il rischio maggiore è quello di una normalizzazione del pericolo mafioso. Rischio di pensare che una mafia meno cruenta non rappresenti più un pericolo mentre è vero il contrario: le mafie attuali organizzate come imprese – a cominciare dalla ‘ndrangheta, la più potente di tutte – realtà insediate nel tessuto economico e capaci di arricchirsi nell’ombra, sono più forti di quando imponevano il loro potere con le armi e le cariche di tritolo. Mafie che – facendo leva sul disinteresse, la sottovalutazione o la miopia di tanti – continuano ad attingere enormi profitti da “mercati” tradizionali come quello del traffico di droghe o da relativamente nuovi come quello del gioco d’azzardo. Mafie infine che hanno ormai assunto una dimensione internazionale, come anche Papa Francesco ha recentemente denunciato con forza: ci troviamo ormai di fronte a una globalizzazione mafiosa, una convergenza tra il sistema economico del cosiddetto “libero mercato” e quello delle organizzazioni criminali.
Ecco allora che ricordare oggi Giovanni Falcone e i martiri di Capaci significa ripensare la lotta alle mafie e ripensare anche il concetto di legalità.
Non c’è legalità senza giustizia sociale. Se mancano i diritti sociali fondamentali – il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria – la legalità rischia di diventare un principio di esclusione e discriminazione, come abbiamo visto in questi anni nel malgoverno del fenomeno dell’immigrazione, dove certe norme non hanno differito per impronta e spirito da quelle razziali fasciste.
Mai si è parlato tanto di legalità come in questi ultimi 30 anni e mai come oggi abbiamo una democrazia debole, pallida e diseguale, come la pandemia ha impietosamente evidenziato. Dimostrazione che della parola legalità è stato fatto un abuso retorico, per certi versi “sedativo”.
Molti dicono “legalità” per mettersi la coscienza in pace, per sentirsi dalla parte giusta, si esibisce la legalità come una credenziale per poi usarla come lasciapassare, foglia di fico anche di misfatti e porcherie. Ecco allora che l’espressione “educazione alla legalità” – senza nulla togliere all’ammirevole impegno di tanti insegnanti – va sostituita con “educazione alla responsabilità”. È la responsabilità, infatti, l’architrave di ogni processo educativo e culturale, perché responsabilità vuol dire imparare ad essere liberi con gli altri e per gli altri, non contro di loro. Una società non responsabile, dove prevale l’interesse individuale, proprietario, esclusivo – all’occorrenza ladro o parassita del bene comune – sarà sempre una società mafiosa nell’anima, una società intrinsecamente violenta come lo sono oggi le mafie, che magari uccidono di meno ma rendono tante persone vive morte in speranza e dignità, persone prive di diritti e di futuro.
Giovanni Falcone sapeva bene che la legalità è un mezzo e non un fine perché – come Paolo Borsellino, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Rosario Livatino e tutti i magistrati e uomini delle istituzioni (vedi Carlo Alberto dalla Chiesa) e anche dei partiti (vedi Pio La Torre e Piersanti Mattarella) che hanno servito la democrazia lottando contro poteri criminali ma anche corrotti o ingiusti – Giovanni Falcone aveva come orizzonte la giustizia, cioè la libertà e la dignità di ogni essere umano.
Questa è l’eredità che ci ha lasciato. Un’eredità etica, onerosa, che solo in parte il nostro Paese si è assunto. A fronte dei tanti passi in avanti compiuti nel contrasto alle organizzazioni criminali – Palermo ad esempio è una città profondamente cambiata e in parte bonificata dalla presenza mafiosa – o nella dotazione di strumenti legislativi di cruciale importanza come la legge sulla confisca dei beni mafiosi e il loro riutilizzo sociale, certi nodi non sono stati risolti e oggi vengono dolorosamente al pettine. Penso alla corruzione, terreno fertile per la diffusione del male mafioso e oggi metodo che le mafie stesse hanno adottato per arricchirsi nell’ombra e in silenzio, senza destare allarme sociale, usando i soldi per fare i soldi, costruendo con la forza del denaro complicità e collusioni a vari livelli.
Allora ha profondamente ragione Rosy Bindi quando dice che Tangentopoli è stata un’occasione mancata perché, al di là dello sforzo di chi già allora denunciava il pericolo, la questione morale non è diventata una questione politica, un’occasione per ridare alla politica la sua dimensione etica di servizio disinteressato per il bene comune. Ma una politica che non sappia sposare in toto l’intransigenza etica della Costituzione non è solo una politica di malgoverno, è anche una politica esposta alla corruzione e all’infiltrazione mafiosa.
Ecco allora che non possiamo ricordare Falcone solo nella ricorrenza di Capaci: dobbiamo fare della sua memoria il nostro impegno a interrogarci, essere onesti, avere il coraggio di fare scelte scomode, di rifiutare i compromessi.
E poi, come società non solo “civile” ma responsabile, partecipare e contribuire al bene comune, cioè essere cittadini fino in fondo, come ci chiede la Costituzione. Falcone ci ha insegnato che il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi guarda e lascia fare. Ci ha insegnato che la legalità è un fatto di civiltà e giustizia sociale. Ci ha insegnato che bisogna vivere, non lasciarsi vivere.
C’è chi ha raccolto questa eredità: un’Italia che ha preso coscienza, che non pensa più che le mafie siano solo un problema del Sud e che combatterle sia solo un compito dei magistrati e delle forze di polizia. Un’Italia spiritualmente e anagraficamente giovane: un recente sondaggio sulla percezione di mafie e corruzione condotto dall’istituto Demos di Ilvo Diamanti ha evidenziato che la “domanda di partecipazione” riguarda soprattutto le fasce d’età 18/24 e 45/54, cioè i giovani attuali e quelli che lo erano al tempo delle stragi di mafia. Un’Italia poi trasversale, fatta di realtà laiche e di Chiesa, con riferimenti culturali e politici diversi, ma unite dal comune orizzonte dell’impegno per la giustizia sociale.
A fronte di quest’Italia, però, ci sono ancora Italie che si nascondono complici o silenti. C’è ancora troppa indifferenza, troppo egoismo, troppa delega. C’è un’antimafia a volte di facciata: “antimafia” è una parola che avrebbe bisogno di una quarantena prolungata, di una pausa di ripensamento e bonifica. Troppi hanno trasformato l’antimafia, che è questione innanzitutto etica, in esercizio puramente retorico se non titolo da esibire e fasullo certificato di garanzia.
Ecco allora che questo trentesimo anniversario deve segnare un punto di svolta, un impegno più grande e consapevole. Non occorrono “eroismi”: occorre umiltà, tenacia, passione per il bene comune e capacità di leggere la realtà con sguardo profondo e di ascoltare le sue spesso mute grida di sofferenza con “l’orecchio del cuore”, come c’invita a fare Papa Francesco. Occorre nondimeno un impegno composito, multiforme, che intrecci i mondi della scuola, dello sport, della cultura, arte e anche dell’economia, frutto di uno sguardo non più solo specialistico ma meticcio, transdisciplinare, consapevole del profondo legame tra “Bene” e Bello”, etica ed estetica, forma e contenuto.
Occorre infine il coraggio più difficile ma più necessario: quello di rispondere ogni giorno alla propria coscienza.