La responsabilità è una conquista dolorosa
Massimo Recalcati
Libertà è una parola fondamentale, se non la parola fondamentale per ogni lessico civile. La vita umana non è solo domanda di appartenenza ma anche esigenza di libertà, desiderio di erranza. Tuttavia, la libertà non è solo un’esperienza di liberazione, di affermazione della singolarità della propria vita, ma è anche, paradossalmente, una «condanna». L’uomo è, infatti, come affermava Sartre, «condannato a essere libero».
L’esistenza umana è, in quanto tale, sempre condannata alla libertà. A differenza del mondo animale dove la legge dell’istinto predomina univocamente determinando comportamenti reattivi, fissati geneticamente, che non implicano la dimensione etica della scelta, nel mondo umano la catena propria dello schema istintuale viene sospesa, interrotta, traumatizzata. Per questo la pulsione, rispetto all’istinto, è più libera di «scegliere» modalità di soddisfazione che non sono necessariamente previste dal carattere univoco dello schema istintuale. Il pensiero, la fantasia, l’immaginazione, l’erotismo sorgono da questa libertà dall’istinto rendendo possibili diverse modalità di soddisfazione rispetto alla rigidità di quello schema. Questo significa che non possiamo mai liberarci dalla libertà, che se siamo liberi non è perché abbiamo scelto la libertà, ma perché siamo gettati nella libertà, forzatamente consegnati, vincolati, incatenati alla libertà.
Nessuno infatti può scegliere al nostro posto e, anche quando decidessimo di sottometterci senza riserve a un padrone, quando decidessimo di fuggire dalla libertà, sarebbe sempre e comunque una nostra libera scelta, una manifestazione irriducibile della nostra libertà. Per questa ragione, in quanto condanna, vincolo, consegna, la libertà è il luogo elettivo dell’angoscia di fronte al dilemma della scelta. Non posso liberarmi dalla responsabilità della scelta, non posso sottrarmi al suo peso. Anche se scelgo di non scegliere, questa opzione resterà sempre espressione di una scelta singolare.
In psicoanalisi non è però mai scontato chi sceglie. Sceglie l’Io o sceglie l’inconscio? L’inconscio può essere un alibi che solleva dalla responsabilità («non sono stato Io, è stato lui, è stato l’Es!»), oppure può dilatare la nozione di responsabilità. Freud si chiedeva, non a caso, se possiamo considerarci responsabili anche dei nostri sogni. Per questa ragione la libertà non è solamente una brezza, una corsa, ma implica sempre la tentazione ambigua della sua negazione, la tentazione di disfarsi della libertà. Anzi, potremmo addirittura affermare che la vita umana sia lacerata dalla libertà. È aspirazione alla libertà e, al tempo stesso, angoscia di fronte alla libertà; è spinta a essere radicalmente libera e, al tempo stesso, è spinta a evitare la vertigine della libertà, a sabotare la propria libertà.
A proposito di quest’ultima inclinazione Nietzsche parla di una «nostalgia della terra» che affliggerebbe anche i più grandi navigatori. In mezzo all’orizzonte infinito del mare non sperimentiamo solo l’ebbrezza della libertà, della dilatazione dei confini, dell’incontro con l’infinito, ma, ricorda Nietzsche, è sempre in agguato la «nostalgia della terra», per il suolo, per la propria casa. Questo significa che la libertà non può mai essere del tutto dissociata dall’angoscia per la libertà. Questa angoscia anima per Freud la pulsione securitaria, ovvero la pulsione che, anziché spingere la vita in avanti, la riporta indietro, la rivolge alla difesa autoconservativa della propria identità. Si tratta, come abbiamo visto, di una pulsione altrettanto fondamentale di quella erotica, che invece tende a formare aggregazioni sempre più vaste, a espandere il suo raggio d’azione, ad allargare gli orizzonti del mondo.
In Fuga dalla libertà Fromm distingue la «libertà da» dalla «libertà di». La prima è ancora una forma immatura della libertà, che prende le sembianze della semplice opposizione, come accade, per esempio, nell’adolescenza, dove il figlio rivendica una libertà che è solo una libertà «da», per esempio dalle norme più o meno rigide che la sua famiglia o la scuola gli impongono. Questa libertà – la «libertà da» – mantiene ancora un legame di dipendenza con le persone che si sono prese cura della vita del figlio. In questo modo il soggetto che si dichiara libero può comunque preservare sempre il carattere «primario» dei suoi legami più profondi.
Si tratta di una libertà che può sempre ritornare nel grembo da cui il soggetto si è separato. In questo senso è una forma incompiuta della libertà e del processo di individuazione. Diversamente, la «libertà di» è la forma compiuta della libertà che implica la realizzazione del processo di individuazione. Per chiarire questa differenziazione Fromm fa riferimento al mito biblico del giardino dell’Eden. La libertà di Adamo ed Eva prima del gesto della trasgressione sarebbe stata solo una forma incompiuta della libertà. Essi infatti vivevano perduti nell’immediatezza armonica della natura. È solo l’infrazione dell’interdizione di accedere all’albero della conoscenza che interrompe questa fusione senza differenza. In questo atto di disobbedienza Fromm legge la prima manifestazione della libertà umana.
La sofferenza che deriva da questo atto – l’espulsione dal giardino dell’Eden – mostrerebbe che la «libertà da» Dio non coincide però ancora con la libertà autoaffermativa del soggetto, con la sua piena «libertà di» esistere autonomamente. È solo la recisione definitiva di questo rapporto di dipendenza a poter sancire il passaggio dalla «libertà da» alla «libertà di». Ma la «libertà da» in se stessa non può mai assicurare il passaggio alla «libertà di». Questo significa che la necessaria liberazione dalle costrizioni non coincide ancora con l’esercizio compiuto della libertà.