Dicevano che Mohamed Kuno fosse entrato nella lista dei morti che camminano, inseguito dai «mietitori di Obama», i droni schierati a Gibuti e Seychelles per dare la caccia agli shebab. Invece il terrorista è stato più veloce. È sfuggito ai battitori nel Corno d’Africa ed ha organizzato l’assalto di Garissa, in Kenya.
Per la polizia è Kuno la mente dell’attacco. Sapevano che stava pianificando attentati per il periodo pasquale. E lui ha scelto il college della cittadina perché qui è di casa avendo insegnato in una scuola coranica, la professione abbandonata per unirsi agli islamisti somali. Kuno, di nazionalità kenyota, è considerato una figura pericolosa, già responsabile di altri massacri, fautore della linea oltranzista. Tre mogli, la madre nota come la «dama di ferro», uno stuolo di figli, avrebbe coinvolto alcuni dei familiari nelle attività guerrigliere: sembra che una consorte e una figlia siano state addestrate in vista di future missioni kamikaze. Volontarie — non sappiamo fino a che punto — di una falange composta da locali ma anche da molti somali nati o cresciuti in Occidente. Ragazzi arrivati dal Minnesota, dal Canada, dall’Europa, e poi impiegati in una campagna feroce. L’ultima, una mamma olandese, armata di cintura esplosiva fatta detonare in un hotel di Mogadiscio. Circa 200 volontari stranieri su un totale di 9 mila guerriglieri.
Kuno, secondo i media, ha creato una sua unità nel Juba (Somalia) per poi estendere i legami ai campi profughi, naturale bacino di reclutamento. Un apparato inserito nell’ala militare degli shebab, colpita duramente in questi ultimi due anni. Il movimento, nato a metà degli anni 2000, dopo la sconfitta delle Corti islamiche, ha vissuto momenti non facili. Attaccato su più fronti dal contingente africano Amisom, dal Kenya e dagli Stati Uniti ha dovuto ripiegare senza rinunciare alla ritorsione feroce. Da qui l’infiltrazione dei mujaheddin somali, con scorrerie nei villaggi e operazioni clamorose, compresa quella al centro commerciale Westgate di Nairobi, nel settembre 2013.
Gli shebab hanno usato tattiche rese ancor più feroci dai metodi dell’Isis e dei nigeriani di Boko Haram. Target indifesi, prese d’ostaggio, separazione dei musulmani dai cristiani, esecuzioni. Indiscrezioni hanno ipotizzato un avvicinamento al Califfato. Il gruppo, dopo aver aderito nel 2012 ad al Qaeda, avrebbe allentato i rapporti per ragioni di opportunità e a causa delle difficoltà di restare in contatto con la casa madre. Una svolta che però deve trovare conferme. L’altro aspetto, evidente, è la determinazione del movimento, in grado di scatenare l’inferno nonostante le faide interne e i bombardamenti dell’asse Usa-Kenya. In settembre i droni americani hanno ucciso il leader Ahmed Godane, sostituito da Ahmad Umar. In dicembre è toccato a Talhil Abdishakur, responsabile della sicurezza, due mesi dopo un missile ha incenerito Yusef Dheeq, altro operativo di livello. Quindi ha pagato il conto Adan Garaar, l’uomo che ha pianificato la strage del Westgate: l’intelligence lo ha scovato, l’aviazione lo ha finito. Comandanti, non pedine spendibili. Gli shebab li hanno celebrati, poi sono tornati all’offensiva. Indisturbati.
@guidoolimpio