LE IDEE
Qualche inquietudine su Facebook comincia ad avercela proprio lo stesso Facebook: ha tredici anni, l’età che anche per gli individui umani è quella che produce la maggiore quantità di domande su di sé.
In quanto a Facebook, capita che ora si interroghi sul ruolo che ha nella vita delle persone. pagina 28 Qualche inquietudine su Facebook comincia ad avercela proprio lo stesso Facebook: ha tredici anni, l’età che anche per gli individui umani è quella che produce la maggiore quantità di domande su di sé.
In quanto a Facebook, sarà magari per la posizione fiscale non proprio empatica rispetto ai mercati in cui drena pubblicità come niente e nessuno hanno fatto mai; sarà per i sospetti sull’uso che del più popolare social network riescono a fare potenze più o meno occulte; sarà perché tutto ciò che sta in Rete, specie se prospero, è condannato a cambiare continuamente, ma per un motivo o per l’altro capita che proprio Facebook ora si interroghi, ahilui, sul ruolo che ha nella vita delle persone. Immaginiamoci il presidente del Comitato Olimpico che si chiede se lo sport non sia un argomento sopravvalutato: fa un effetto del genere venire a sapere che alcuni dei top manager di Facebook abbiano espresso dubbi sulle fragilità psicologiche che sono alla base dell’affezione per il social network da parte di molti utenti.
Fino a che una ricerca finanziata direttamente dalla società è giunta alla conclusione che il «consumo passivo» del servizio del network può effettivamente risultare pernicioso. Pare di capire che il problema stia nell’abitudine di stare a contemplare i post che si susseguono invece che vivere. Ai due valenti ricercatori che si sono applicati al tema potremmo suggerire diversi «consumi attivi» che appaiono malsani ma forse il punto non è neppure questo.
Da quando esiste Internet, e ancor di più da quando esistono i social network, si è visto che la potenza della connessione, a distanza, virtuale e digitale, ha richiesto molto tempo perché semiologi, sociologi, psicologi elaborassero modelli capaci di rendere conto delle nuove forme di socialità, comunicazione e vita psichica implicate e generate dalle tecnologie. E le tecnologie corrono, corrono, corrono. Nessuno arriva ad esserne mai davvero «esperto», perché ogni competenza deve essere continuamente rinnovata dai cambiamenti strutturali che intervengono a ogni momento o quasi. È insomma la fiaba dell’Apprendista Stregone, in una incarnazione inedita sul cui eventuale happy ending nessuno può scommettere con ragionevole certezza. A volte si menziona Mark Zuckerberg come un demiurgo diabolico, ma in realtà neppure lui può capire a fondo cosa possa davvero derivare dalla connessione di miliardi di esseri umani, tutti abbastanza convinti di essere, assurdamente, «alla pari» con tutti gli altri.
Ora la sua società ci esorta a non essere «passivi» su Facebook, a non prenderla come una finestra sul mondo a cui affacciarsi con la stanca marginalità degli «umarells» (gli anziani che osservano i cantieri), ma come una forma vera e propria di socialità. Ci sta insomma dicendo: «siete arrivati alla festa. Non vorrete mica fare tappezzeria?». Freudianamente, questa richiesta di essere attivi appare come un appello: viene il dubbio, cioè, che Facebook non sappia più cosa sia e che lo chieda a noi, sperandoci in grado di diradare le sue perplessità sulla sua stessa identità. Che cosa è Facebook? Il modo più raffinato mai trovato per vendere utenti alla pubblicità, un servizio a disposizione dei più disinvolti maneggioni russi, il sistema di elusione fiscale più sofisticato al mondo, il Mark-Zuckerberg-Lonely-Hearts-Club? Troviamo velocemente una risposta per rassicurare questo tredicenne cresciuto troppo, e sgraziatamente.
Se ci va in crisi, sono guai per tutti.
In quanto a Facebook, capita che ora si interroghi sul ruolo che ha nella vita delle persone. pagina 28 Qualche inquietudine su Facebook comincia ad avercela proprio lo stesso Facebook: ha tredici anni, l’età che anche per gli individui umani è quella che produce la maggiore quantità di domande su di sé.
In quanto a Facebook, sarà magari per la posizione fiscale non proprio empatica rispetto ai mercati in cui drena pubblicità come niente e nessuno hanno fatto mai; sarà per i sospetti sull’uso che del più popolare social network riescono a fare potenze più o meno occulte; sarà perché tutto ciò che sta in Rete, specie se prospero, è condannato a cambiare continuamente, ma per un motivo o per l’altro capita che proprio Facebook ora si interroghi, ahilui, sul ruolo che ha nella vita delle persone. Immaginiamoci il presidente del Comitato Olimpico che si chiede se lo sport non sia un argomento sopravvalutato: fa un effetto del genere venire a sapere che alcuni dei top manager di Facebook abbiano espresso dubbi sulle fragilità psicologiche che sono alla base dell’affezione per il social network da parte di molti utenti.
Fino a che una ricerca finanziata direttamente dalla società è giunta alla conclusione che il «consumo passivo» del servizio del network può effettivamente risultare pernicioso. Pare di capire che il problema stia nell’abitudine di stare a contemplare i post che si susseguono invece che vivere. Ai due valenti ricercatori che si sono applicati al tema potremmo suggerire diversi «consumi attivi» che appaiono malsani ma forse il punto non è neppure questo.
Da quando esiste Internet, e ancor di più da quando esistono i social network, si è visto che la potenza della connessione, a distanza, virtuale e digitale, ha richiesto molto tempo perché semiologi, sociologi, psicologi elaborassero modelli capaci di rendere conto delle nuove forme di socialità, comunicazione e vita psichica implicate e generate dalle tecnologie. E le tecnologie corrono, corrono, corrono. Nessuno arriva ad esserne mai davvero «esperto», perché ogni competenza deve essere continuamente rinnovata dai cambiamenti strutturali che intervengono a ogni momento o quasi. È insomma la fiaba dell’Apprendista Stregone, in una incarnazione inedita sul cui eventuale happy ending nessuno può scommettere con ragionevole certezza. A volte si menziona Mark Zuckerberg come un demiurgo diabolico, ma in realtà neppure lui può capire a fondo cosa possa davvero derivare dalla connessione di miliardi di esseri umani, tutti abbastanza convinti di essere, assurdamente, «alla pari» con tutti gli altri.
Ora la sua società ci esorta a non essere «passivi» su Facebook, a non prenderla come una finestra sul mondo a cui affacciarsi con la stanca marginalità degli «umarells» (gli anziani che osservano i cantieri), ma come una forma vera e propria di socialità. Ci sta insomma dicendo: «siete arrivati alla festa. Non vorrete mica fare tappezzeria?». Freudianamente, questa richiesta di essere attivi appare come un appello: viene il dubbio, cioè, che Facebook non sappia più cosa sia e che lo chieda a noi, sperandoci in grado di diradare le sue perplessità sulla sua stessa identità. Che cosa è Facebook? Il modo più raffinato mai trovato per vendere utenti alla pubblicità, un servizio a disposizione dei più disinvolti maneggioni russi, il sistema di elusione fiscale più sofisticato al mondo, il Mark-Zuckerberg-Lonely-Hearts-Club? Troviamo velocemente una risposta per rassicurare questo tredicenne cresciuto troppo, e sgraziatamente.
Se ci va in crisi, sono guai per tutti.
La Repubblica – Stefano Bartezzaghi – 17/12/2017 pg. 1,28 ed. Nazionale.