Il vacuo “avvocato del popolo”, la “marionetta” irrisa dal tronfio Verhofstadt, l’arlecchino-servo-dei-due-padroni legastellati, diventa suo malgrado il Grande Statista prêt-à-porter. Entra nello Studio alla Vetrata al Quirinale come premier dimissionato di una coalizione di destra, e ne esce come premier incaricato di una coalizione di sinistra. E con un discorso mimetico, forbito dai sofismi e infarcito dai trasformismi dell’intramontabile rito democristiano, chiude la stagione del “governo del cambiamento” e apre quella del “governo nel segno della novità”. Qualunque cosa significhi tutto questo, lo salutano festanti Donald Trump e Bill Gates. Lo accolgono in letizia Angela Merkel e Ursula von der Leyen. Lo festeggiano lo spread e le Borse.Ma non c’è vera gloria, in questa incipiente epifania giallo-rossa che archivia la pazza estate giallo-verde. Fino a ieri Conte ha governato uno “stato di eccezione”: l’alleanza spuria, e unica in Europa, tra due diversi populismi, uno dei quali ispirato (e forse persino foraggiato) dalle democrature illiberali russo-turco-magiare. Da oggi Conte governa uno “stato di necessità”: l’intesa forzosa, più comune in Europa, tra due nemici improvvisamente ricongiunti da un accidente della Storia. Li unisce quella che Ezio Mauro ha chiamato “la forza delle cose”. L’emergenza economica (le clausole Iva, il deficit, la manovra di bilancio) e l’incognita istituzionale (la paura del voto anticipato, la probabile vittoria dell’ultra-destra, il rischio Quirinale nel 2022 e certo, anche l’ansia di perdere lo scranno parlamentare). Li divide quella che potremmo chiamare “la debolezza della fase”.Non solo la crisi generale “di sistema”, la rottura tra élite e popoli, la delegittimazione delle istituzioni, la fine dei partiti di massa novecenteschi. Ma anche la crisi specifica dei due soggetti del nuovo patto di governo.
Il Pd è certamente sinistra, ma preterintenzionale e irrisolta. M5S è politicamente “anti-materia”, ma post-ideologica e informe. Anche per questo, dopo gli anni dello sberleffo in streaming, dello scontro da talk e dell’odio via social, adesso si accostano con la mutua diffidenza di chi (non sapendo bene cosa è, cosa vuole e dove vuole andare) teme ogni forma di contaminazione.
Le parole di Conte, dopo il faccia a faccia con il presidente della Repubblica, riflettono questa “necessità”. Che solo una fortunata congiunzione astrale o l’eroica determinazione degli alleati possono trasformare in “opportunità”. Il premier incaricato surfa sui problemi, parla ma non dice. Dal governo che non sarà «contro» alla «nuova stagione riformatrice»: manca solo la pace nel mondo, e la svolta è compiuta. Poi il programma, l’istruzione e l’ambiente, le disuguaglianze e i giovani: manca la mamma a cui voler bene, e la lista dei buoni propositi è completa. Nel testo contiano spicca il “non detto”: nessun richiamo al taglio dei 345 parlamentari, nessun riferimento alla tragedia dei migranti che proprio durante le consultazioni si consuma sulla pelle dei bambini della Mare Jonio.
È evidente la volontà di enfatizzare le “cose che uniscono”, fuggendo via (almeno per adesso, e con i soliti equilibrismi dorotei) dalle tante e forse troppe “cose che dividono”. Ma prima o poi anche di queste bisognerà parlare. E allora saranno dolori.
Nonostante questo, tra i morotei “brevi cenni sull’universo” di Conte bisogna sforzarsi di cogliere le due cose buone che restano. Da un lato la “collocazione euro-atlantica” del Paese, dall’altro la “fedeltà ai principi non negoziabili della Costituzione”.
Qui almeno un piccolo seme della tanto auspicata “discontinutà” si può cogliere. A giugno del 2018, al suo esordio ossequioso della Dottrina Salvi-Maio, il leguleio di Volturara Appula si definiva «orgogliosamente populista», inneggiava al cambio di paradigma nell’Europa tecnocratica e se ne infischiava serenamente della Costituzione. Un anno e tre mesi dopo, Conte sembra passato dal governo del “me ne frego” al governo del “tengo conto”. È già qualcosa, visti i tempi che viviamo. Ed è quasi molto, rispetto allo sproloquio malmostoso di Di Maio dopo il suo incontro con il Capo dello Stato, che quasi tradiva più nostalgia per la Lega perduta che non fiducia nel Pd ritrovato. Fino a spingersi al paradosso di ribadire contro ogni evidenza che “destra e sinistra non esistono più” (proprio nell’ora in cui divorzia dalla prima e convola a nozze con la seconda) e di rivendicare “il lavoro fatto con la Lega in questi 14 mesi” (con una totale condivisione di tutte le nefandezze ideologiche e falsamente securitarie pretese da Salvini). Per questo adesso si può sperare, ma si fa molta fatica a credere che il seme possa germogliare. Molto dipenderà dalla squadra: non abbiamo il tempo né la cultura per sottoscrivere “contratti alla tedesca”, per questo sono cruciali vicepremier e lista dei ministri. I nomi sono il programma: riveleranno il grado di credibilità dell’esecutivo e il livello di coinvolgimento dei due partiti. Se l’approccio è l’agnostico “not in my name”, o peggio ancora il patetico “mettiamoci i tecnici” del comico genovese, allora è meglio lasciar perdere subito.
Ma molto di più dipenderà dalla maturazione delle due “deboli forze” che daranno vita alla nuova maggioranza. Qui ci sono abissi da colmare.
Il primo abisso riguarda proprio i Cinque Stelle. Se questo governo non è solo il pretesto per non perdere la poltrona, il Movimento ha una formidabile chance, forse l’ultima, per uscire dalla sua felice e irresponsabile adolescenza politica. Dimentichi le scatolette di tonno e si “costituzionalizzi”, in Italia e in Europa. Superi il mito della democrazia del clic e faccia suoi i principi della democrazia parlamentare. Rinunci alle sedute esoteriche tra Elevati nella villa di Bibbona e discuta a viso aperto nei congressi. Contribuisca alla ricostruzione del bipolarismo (come gli ha più volte chiesto Eugenio Scalfari), e si convinca che Salvini e Zingaretti non sono né uguali né intercambiabili. In questi 14 mesi troppa destra è passata sotto i ponti. Ma forse non è ancora troppo tardi, per risalire il fiume.
Il secondo abisso riguarda il Pd. Sarà anche vero che non c’è più Enrico Berlinguer (che il compromesso storico sapeva farlo capire alle masse), che la politica è «sangue e merda» (come diceva Rino Formica), che la coerenza è «l’ultimo rifugio delle canaglie» (come motteggia Giuliano Ferrara). Ma prima o poi qualcuno dovrà spiegare perché al congresso di marzo Zingaretti incoronato segretario chiudeva il suo comizio in un tripudio di applausi urlando quasi in lacrime che mai avrebbe fatto patti con i Cinque Stelle, e l’altroieri in direzione ha ottenuto una clamorosa standing ovation annunciando l’esatto contrario. Nessuno dubita che anche oggi la sinistra voglia sacrificarsi per il suo solito “senso di responsabilità”. Ma qui la sfida è quasi proibitiva. Si tratta di provare a durare una legislatura. Di smontare il teorema sovranista sul complotto giudo-pluto-massonico (che è altra cosa da un “ordine mondiale” che esiste e che, da Trump in giù, provi a spegnere i focolai di disordine che danneggiano i popoli in nome dei popoli). Si tratta di arginare Salvini che mobilita le piazze contro i comunisti al potere per la quarta volta senza passare per il voto. Mai come oggi, per evitare altri rovinosi autodafé, alla sinistra servono un pensiero, un progetto, un’idea di Paese. Non basta baciare un rospo per evitare di baciare un rosario.