Quando l’Io si separò da Dioniso

Come avvenne che da animali diventammo uomini e come la nostra ragione continua a confrontarsi con l’inconscio e il nostro lato più oscuro
di Eugenio Scalfari
Ho pensato in questi giorni che valeva la pena di conoscere con esattezza come è nato il concetto di Io. È stato un processo che ha contraddistinto la nascita della specie umana. Le specie si distinguono per il fatto che conoscono se stesse. Naturalmente è un processo lungo, ma a un certo punto riescono a distinguersi all’interno del genere che le sovrasta. Se vogliamo definire con una parola la nostra specie il suo nome è Io. Qualcuno chiederà: serve a qualcosa? In teoria serve a conoscere la realtà che ci circonda. A tutto e a nulla. Ognuno di noi muore dalla voglia di ammirare l’Io. In tutte le altre occupazioni siamo dei dilettanti ma ciascuno di noi in questo è uno specialista eccellente. Il sentimento morale come effetto dell’amore di Sé e quindi del più radicato e permanente egoismo: questa è la deplorevole situazione nella quale ci troviamo da molte migliaia di anni.
Quando comincia la storia dell’uomo occidentale, accanto all’Io entra in scena anche Dioniso. Arriva dalla Tracia, al di là dell’Ellesponto dove i cavalli del Sole cominciano il loro sfrenato galoppo lungo la curva del cielo. Dioniso è una regressione e insieme un’anticipazione al di qua dell’uomo e al di là di esso, è colui che vive tutte le vite, sangue pulsante, forgia e nostalgia dell’Essere dal quale fummo separati quando l’Io emerse dalla natura. È sempre stato così? Non credo, ci deve essere stata un’epoca in cui eravamo ben poco diversi dalle altre specie. Noi siamo in realtà la bestia che pensa il pensiero che erompe dal corpo, lo sovrasta e lo frusta perché si adegui ai suoi comandi mentre i veleni della vecchiezza irrigidiscono i tessuti.
*** Voi temete la morte, chi non la teme? Cercate di scordarvene, cadono accanto a voi le vite degli altri; che importa? L’umana pietà vi commuove appena un istante se avete un tempo vuoto. Noi lottiamo con la morte durante tutta la vita. Non c’è istante che l’immagine di lei ci abbandoni. Quando ci agita un’ansia di cui non ci diamo ragione è lei che incombe. Questo Io compatto, questo Io governante è sempre a rischio. Lo insidia continuamente il sospetto di essere un’illusione o piuttosto una sovrastruttura, un luogo dove si incontrano e si esprimono forze sottostanti.
Scrive Ingeborg Bachmann in una delle sue Lezioni di Francoforte : «Che cosa è l’Io, che cosa potrebbe essere? Un astro la cui posizione e orbita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe essere questo: miriadi di particelle che formano un “Io” ma al tempo stesso potrebbero essere un nulla». Una forma pura: ecco una definizione che coglie l’essenza di Io come meglio non si potrebbe. Forma pura costruita dal pensiero. Del resto nessuno lo ha definito meglio di Descartes: «Penso dunque sono», tre parole che chiudono questa vicenda intellettuale. *** «Da dove può venire l’idea che l’uomo è libero? O l’altra per cui non lo è? Non so se a cominciare questa controversia sia stata la filosofia o la polizia» (Paul Valéry). «Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli, ma libertà totale per lupi significa morte per gli agnelli, una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e meno capaci hanno a una vita decente» (Isaiah Berlin).
Terminerò questi miei pensieri odierni con una riflessione che credo meriti di chiudere questo articolo. Forse il super-Io non è una figura psichica collocata a ridosso della razionalità; tanto meno è il mandatario della società che vuole moderare gli istinti perché, se così fosse, non reggerebbe neppure un attimo. Forse non è un guardiano che dall’esterno vigili sulla fossa oscura dell’inconscio.
Quando ascolto un brano di Chopin subito arriva la melanconia. Capita anche ascoltando altre musiche, oppure leggendo versi di poeti, guardando un tramonto o gli occhi di una donna o aspirando un profumo che porta con sé un ricordo lontano. Ma con Chopin non è soltanto una sensazione fugace, l’emozione di un attimo, ma un sentimento, uno stato dell’anima che non ti lascia fino a quando quelle note risuonano. Per capire il rapporto che lega quella musica alla melanconia bisogna domandarsi in che cosa consiste la sua essenza, la sua forma, lo strumento da cui promana e che la rende percepibile. Forse bisogna anche chiedersi che cosa sia la melanconia. Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane scrive che la melanconia è la tristezza quando diventa leggera. Dunque una tristezza che non è cupa ma mercuriale.
Chopin compone musiche che affida al pianoforte; i componimenti alternano arpeggi briosi con indugi, ribattute, trilli insistenti per poi arrestare il flusso nelle pause e riprendere con tutt’altra movenza melodica, estenuata, quasi sospesa in attesa di ispirazione, appoggiata in prevalenza sui semitoni del bemolle.
Sua Santità Francesco sta puntando su una società fortemente rinnovata. Anche a lui si deve guardare poiché legge quanto c’è di sacro nel futuro e nel Dio la cui natura è umana e divina.
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