I NODI DEL BILANCIO
A quaranta giorni dal crollo del Ponte Morandi il «decreto Genova» non passa l’esame della Ragioneria dello Stato: mancano le coperture. Sul disastro del viadotto Polcevera, il governo ha dosato indignazione e impegni. Poi ha mancato, almeno per ora, l’appuntamento cruciale. Mentre gli amministratori locali, il presidente Toti e il sindaco Bucci, suggerivano un approccio più pragmatico e meno ideologico, isolando i temi della ricostruzione del viadotto e dell’eventuale revoca della concessione, l’esecutivo ha voluto mostrare i muscoli. Per ora l’esito tangibile di tanto fervore è ben poca cosa. La colpa, è facile immaginarlo, verrà attribuita ai tecnici della Ragioneria. Nella grande narrazione dello scontro fra populisti e élites, sono il capro espiatorio perfetto: funzionari che nessuno ha eletto, privi di responsabilità politica, uno Stato-nello-Stato refrattario al cambiamento. La burocrazia è sicuramente un gruppo d’interesse implacabile, ma quale ragione avrebbero per mettere i bastoni fra le ruote alla ricostruzione del Ponte Morandi? E, a dirla tutta, perché mai dovrebbero essere ostili, in linea di principio, a un governo che vuole ampliare il raggio d’azione dello Stato, ovvero il potere della burocrazia stessa? C’è in realtà un altro problema, che unisce la sconsolante vicenda del decreto Genova ai rimpalli sul deficit per la nota d’aggiornamento al Def. L’ablazione del tema delle coperture, del dove cioè reperire le risorse per realizzare tutto quel che la maggioranza desidera, rivela un’incomprensione fondamentale. La politica ha a che fare con le scelte collettive: che sono, per l’appunto, scelte. L’attuale governo ha tutto il diritto di immaginare, forte del consenso di cui gode in Parlamento e nel Paese, uno Stato che faccia cose diverse da quelle che faceva in passato. Il guaio è che in qualche modo si presume che l’esistente non sia modificabile, che l’unica possibilità sia quella di appesantire il bilancio pubblico. Il che, per carità, è sempre possibile: ma al prezzo di aumentare le tasse. Si dice che c’è un’alternativa: ricorrere al deficit. Sempre più spesso sentiamo espressioni come «se l’Europa non ci dà i soldi», «se il ministro non trova i soldi». Che il ministro Tria estragga il suo coniglio dal cilindro! Da anni, il dibattito sulla manovra ruota attorno al desiderio, condiviso da tutti i partiti, di fare più deficit. Ciò segnalerebbe una maggiore capacità negoziale rispetto all’Europa. Quand’anche alle istituzioni europee stesse benissimo che l’Italia sfiori o sfori il 3%, non si tratta di quattrini che ci mettono loro: di un gentile sussidio da parte di Francia, Spagna, Belgio o Olanda. E’ sempre lo Stato italiano a indebitarsi. Un deficit più elevato, segnalando ai nostri creditori una certa rilassatezza nel controllo delle spese, può indurli a prestarci quattrini a condizioni per noi meno favorevoli. Per questo, nell’incertezza, sale lo spread. E, di conseguenza, salgono le somme che inevitabilmente lo Stato deve pagare in interessi. Non si può far altro? Ma non denunciamo, da anni, sprechi e inefficienze della spesa pubblica? Il Movimento Cinque Stelle nel suo programma elettorale prevedeva un risparmio di circa 30 miliardi annui dalla spending review. Chi la sta facendo, questa revisione della spesa? Gli annunci vanno tutti nella direzione opposta. Prima di impiccarli al pennone più alto, non sarebbe sensato confrontarsi coi funzionari della Ragioneria, che il bilancio pubblico lo conoscono? Una lista delle priorità, però, deve esserci, per il semplice fatto che nemmeno lo Stato moltiplica i quattrini per magia. La ricerca delle coperture non è una battaglia fra tecnici e politici: riguarda proprio l’idea che la politica ha del Paese. Ammesso che un’idea ci sia.