di Ezio Mauro
Prima che il gallo canti si possono dire due, tre cose che non dipendono dal risultato elettorale ma possono determinarlo, perché sono le tendenze profonde del sistema al di là della propaganda per il voto.
Innanzitutto con l’apertura oggi delle urne finisce la prima lunga stagione dell’antipolitica: il referendum sul taglio dei parlamentari è insieme il punto culminante di quella sfida e il punto di svolta.
Lo dimostra la gestione de-ideologizzata e disarmata che i grillini hanno tentato di fare della questione, lasciando nel magazzino degli orrori quelle gigantesche forbici simboliche esibite davanti a Montecitorio mesi fa, in una campagna anti-casta che sfiorava l’anti-parlamentarismo, riducendo le Camere alle poltrone, la funzione rappresentativa e legislativa a un puro costo superfluo.
Oggi, consapevoli che quella spinta si sta prosciugando (al punto che molti cittadini favorevoli alla riduzione del numero di parlamentari votano No proprio contro quello spirito qualunquista) hanno cambiato tono, e dalle urla sono passati al bemolle, quasi sparendo dalla scena: cercando di compiere il salto mortale di una gestione istituzionale per una campagna anti-istituzionale.
Nello stesso tempo il declino del populismo “anti” è confermato dalla latitanza del M5S alle elezioni regionali. Corrono dovunque, naturalmente, ma in nessuna Regione corrono per vincere. Questo paradosso meriterebbe un vero dibattito in streaming, trasparente e aperto, per spiegare cos’ha prosciugato non solo il consenso ma la forza del movimento che governa il Paese dal Palazzo senza la possibilità e l’ambizione di governare il suo territorio: una sorta di inedito sovrano senzaterra, come Giovanni d’Inghilterra. Per i grillini, com’è evidente, il referendum è un’occasione straordinaria, sia perché consente di nascondere o velare questo vuoto di presenza politica mantenendo comunque una presenza elettorale, e poi perché permette al movimento di dare battaglia sui suoi temi più classici e identitari, in una sorta di calendario parallelo monotematico da forza di opposizione più che di governo. Nel momento in cui le Regionali dimostrano che il M5S non riesce a far politica, il referendum viene in soccorso aiutandolo almeno a fare antipolitica, sia pure ormai a bassa intensità.
Dietro questa debolezza c’è la solitudine culturale di un movimento che non ha deciso di quale mondo fa parte, che resta agnostico (salvo Grillo) davanti alla destra di oggi e alla sinistra, che usa i valori come gli alleati, considerandoli intercambiabili. Dal punto di vista del carisma ispiratore, niente ha ancora sostituito il “vaffa” originario, utile per far esplodere il sistema, non certo per governarlo. Solo un congresso, libero e pubblico, può aprire la scatola di tonno in cui il movimento si è rinchiuso, mettendo finalmente a confronto sotto gli occhi di tutti linee, idee, opzioni culturali e leader diversi, e scegliendo il percorso col metodo democratico del voto.
Naturalmente sta declinando la contro-politica, ma non il populismo. In difficoltà per gli scandali che circondano il suo cerchio oscuro e per una campagna elettorale perenne che consuma tematiche, leadership e consenso, Salvini ha tuttavia un insediamento popolare robusto che investe spaesamento, rabbia, delusione, rivincita sociale, ricerca di riconoscimento, smarrimento indigeno, nella sua carica anti-sistema, nel ribellismo degli egoismi, nella critica a tutte le élite. Questo risentimento nazionalistico è diventato politica, quando Salvini da ministro dell’Interno lo ha indirizzato contro la disperazione dei migranti. Ma oggi segna il passo, attende una nuova interpretazione e in ogni caso non riesce a diventare la cultura dominante e unificante della destra italiana. Anche la crescita elettorale continua di Giorgia Meloni può insidiare il primato salviniano ma non crea il sistema di idee mancante per una destra conservatrice moderna, che non porti l’Italia fuori dalla geografia politica dell’Occidente, nel gruppo di Visegrad. E Berlusconi che per necessità gregaria si accoda al palco elettorale dei due contendenti, registra l’impotenza finale della sua avventura politica: predicare da liberale e agire da autocrate produce infatti un’eredità politica ambigua e per questo fragile. Col risultato che nelle tre destre italiane nessuna cultura è egemone e il disegno risulta incompiuto, dunque instabile.
Resta il Pd, talmente immobile che l’unico suo messaggio sembra quello di un partito spina dorsale del sistema, garante delle istituzioni, fedele alla Costituzione, unica vera forza di contrasto alle destre sovraniste. Non è poco, ma non basta. La responsabilità spesso consiglia compromessi, toni bassi, mediazioni, col rischio di una prassi democristiana senza la teoria di governo della Dc, e senza il suo senso dell’eternità. Anche qui serve un chiarimento di fondo: l’alleanza con il M5S è ancora soltanto un patto tra sordi e ciechi imposto dalla necessità o può diventare un percorso strategico con programmi, uomini, obiettivi e ambizioni conseguenti?
La questione va risolta in una pubblica discussione definendo un orizzonte culturale di riferimento, perché va ben al di là delle invenzioni estemporanee e delle giravolte contingenti di personaggi che vivono di improvvisazioni continue: si tratta addirittura di capire cos’è la moderna sinistra del nuovo secolo, e se ha ancora un senso.
Anche se ha scelto il silenzio, il premier Conte evidentemente non può essere estraneo a questa partita.
La gestione dei fondi europei che è riuscito a sbloccare, infatti, rappresenta la vera grande occasione non per rattoppare ma per ricostruire il Paese, disegnando proprio per questo il profilo di una maggioranza finora senza immagine, perché senz’anima. Conte da Capo del governo può provare a diventare Capo della maggioranza, aiutandola a scegliere finalmente se stessa. Poi la parola passa alle schede nelle urne, che possono sciogliere alcuni di questi nodi. Ammesso che il gallo italiano sappia ancora cantare.