LE VIOLENZE ALL’OPERA
Credo che nessun’altra opera letteraria del Novecento sia passata per traversie analoghe a quelle incontrate da Petrolio: interrotta dall’omicidio dello scrittore, tenuta inedita per molti anni, poi pubblicata ma mutila di alcune sue parti decisive, fiaccata alla sua prima uscita da una polemica scandalistica nata dalle pagine culturali del tempo che ne enfatizzarono i contenuti sessuali; infine, cosa ancora più incredibile, misinterpretata anche da molti critici e scrittori, che per decenni hanno continuato pigramente a leggerla come un “documento” della vita sessuale dell’autore.
Su questo si è soffermato già Sinisi, ricordando come le tante letture sessuocentriche abbiano nascosto uno dei nuclei cruciali e dirompenti dell’opera: «La metamorfosi di un potere che da statale e nazionale diventa finanziario e internazionale».
Ma vale la pena ripercorrere brevemente l’intera serie di incidenti e di violenze che Petrolio ha subito negli anni, così da rendere ancora più evidente la ferita che quest’opera ha aperto nella nostra letteratura e nella nostra cultura. Una ferita che non smetterà di sanguinare fino a quando non se ne farà una nuova edizione, finalmente integra anche di quelle pagine e di quei materiali che finora tutti i curatori, da Graziella Chiarcossi ad Aurelio Roncaglia, da Walter Siti a Silvia De Laude hanno lasciato fuori dall’edizione a stampa.
Cominciamo dalla prima violenza. Petrolio non è un’opera incompiuta per la morte (naturale) dell’autore, come lo sono molte altre opere del passato, come il Requiem di Mozart e L’uomo senza qualità di Musil. Al suo autore, assassinato mentre vi stava lavorando, fu impedito di portarla a termine. Ne restava comunque un testo già molto avanzato nella stesura, di oltre 500 pagine, che aveva un senso per quanto incompiuto. Ma anche a quel corpo testuale superstite è stato tolto qualcosa. È rimasto inspiegabilmente inedito per ben diciassette anni. Perché tanto ritardo?
Gli abbozzi de L’uomo senza qualità lasciati incompiuti da Musil e complicati quanto Petrolio per chi ne curò l’edizione, furono dati alle stampe un anno dopo la morte dello scrittore. Qui invece si è dovuto aspettare a lungo, quasi l’intervallo di una generazione. Così si è tolto a Petrolio la possibilità di parlare e di agire nel tempo e nel momento storico per il quale era stato concepito. Anche i suoi lettori sono stati postumi.
Per di più è stato pubblicato privo di alcune parti decisive. Sinisi ha parlato del famigerato capitolo Lampi sull’Eni, di cui resta nel libro a stampa solo un titolo, una pagina bianca e un richiamo interno che rinvia a pagine che non ci sono. Questa mancanza, ammesso che sia davvero tale (c’è chi sostiene che quelle pagine non siano mai state scritte da Pasolini), tornò alla ribalta nel 2010, quando l’ambiguo ex senatore Marcello Dell’Utri dichiarò di avere in mano quel capitolo “trafugato” di Petrolio, senza però mostrarlo. Ma di questa lacuna non si può certo dare la colpa ai curatori.
I DISCORSI DI CEFIS
Ce n’è un’altra però, che Sinisi non ha ricordato, e che invece resta inspiegabile. Sono i tre discorsi di Eugenio Cefis che Pasolini teneva tra le carte di Petrolio. Questi non sono andati persi: si conservano nell’archivio Pasolini del Gabinetto Vieusseux assieme al dattiloscritto. Pasolini intendeva inserirli così com’erano, senza modificarli, al centro esatto del romanzo, a segnare uno spartiacque tra la prima e la seconda parte, come scrive in una nota di Petrolio. Secondo lui avrebbero rivelato, meglio di ogni altra cosa, ciò che stava succedendo in Italia: il passaggio da un potere di stampo clerico-fascista a un nuovo potere, multinazionale, tollerante e criminale-mafioso.
Data la forma compositiva di Petrolio, non è strano che Pasolini intendesse inserire nel corpo del testo alcuni materiali extra-letterari presi dalla cronaca del tempo, anche iconografici (tra cui probabilmente anche le foto scattate da Dino Pedriali che ritraggono Pasolini, come “spiato”, nella sua casa di Chia).
Già nella prima pagina di Petrolio avverte il lettore che vi troverà molti «Documenti storici che hanno attinenza coi fatti del libro: specialmente per quel che riguarda la politica, e, ancor più, la storia dell’Eni». Alcuni di questi documenti li fonde nella sua scrittura: così succede a un’intervista a Fanfani, e ai famosi «mattinali» del Sid, e al libro Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, scritto da qualche nemico di Cefis con lo pseudonimo di Giorgio Steimetz. Altri invece intende inserirli tali e quali, senza rifonderli, ed è questo appunto il caso dei discorsi di Cefis, che infatti tiene pronti nella cartella, senza ricopiarli.
Dei tre discorsi dall’allora presidente della Montedison gli interessava in modo particolare quello intitolato La mia patria si chiama multinazionale, tenuto ai cadetti dell’accademia militare di Modena nel 1972. Un discorso shock, per l’esplicita celebrazione del capitalismo globalizzato considerato come nuova “patria”, che i militari avrebbero dovuto imparare a servire.
Pasolini scrisse in un articolo sul Corriere della sera che se la televisione avesse diffuso quel discorso, l’Italia avrebbe capito quello che persino la sinistra faceva fatica a capire. Più tardi molti avrebbero messo in guardia contro i danni della globalizzazione, del potere finanziario, della criminalità che si fa stato. Pasolini aveva intuito quella trasformazione della classe dirigente assai prima, osservando Cefis, la maniera con cui aveva accumulato un immenso impero economico (descritto per pagine e pagine negli appunti intitolati L’impero di Troya), la sua responsabilità nel delitto di Enrico Mattei (anche di questo si parla in Petrolio), la sua scalata all’Eni e poi alla Montedison.
Eppure quei tre discorsi, così importanti anche per capire Petrolio, sono rimasti fuori da tutte le edizioni finora pubblicate. Certamente non esauriscono il senso dell’opera, ma se fossero rimasti al centro di Petrolio, come voleva Pasolini, l’ultima opera postuma dello scrittore assassinato avrebbe avuto fin da subito tutt’altra chiave di lettura. Petrolio sarebbe allora apparso anche come un romanzo sul potere, esemplificato sulla figura di Cefis e sull’Eni (che per Pasolini non era solo un’azienda ma «un topos del potere») e non sarebbe stato preda di quell’incredibile biografismo sessuo-patologico, inusuale nella critica letteraria italiana, ma che purtroppo si è abbattuto con tanta superficialità su un’opera tanto densa e complessa.
GIUDIZI SULL’UOMO
Scorrendo la lunga serie di recensioni negative che Petrolio accumulò al momento della sua prima pubblicazione, si resta colpiti dalla loro tendenza non solo a rilevare unicamente i contenuti sessuali (Nello Ajello su Repubblica lo definì «Un immenso repertorio di sconcezze d’autore, un’enciclopedia di episodi ero-porno-sado-maso…come soltanto dall’autore di Salò ci si può aspettare»), ma anche ad attribuire loro un carattere autobiografico. Un esempio tra i tanti: pochi giorni prima dell’uscita del libro, l’Espresso anticipò uno stralcio dal Pratone della Casilina (quello delle 20 fellatio). Il titolo e l’occhiello dicevano: «Così facevo l’amore. Dal romanzo incompiuto di Pasolini tre avventure di Carlo-Pier Paolo». Come se Pasolini parlasse di sé quando nel romanzo rappresenta scene di sesso.
Questa chiave di lettura, fuorviante e occultante, è diventata quasi un automatismo e si è riprodotto per tanti anni. E non si riesce davvero a capacitarsi del fatto che tanti critici e scrittori abbiano saputo o voluto vedere in questo libro solo il documento di un’esperienza privata dell’autore, cosa mai accaduta per nessun’altra opera, nemmeno per i testi di Sade.
Sinisi ha ricordato Edoardo Sanguineti, che in un articolo del 1995 uscito su Micromega sosteneva che Salò e Petrolio non erano che il «documento» di una disperazione privata esplosa in una «patologia». Ma giudizi analoghi sono stati espressi molte volte, anche da scrittori e critici di grande valore, da Franco Fortini («Illeggibile referto di un’autodistruzione per delirio di onnipotenza») a Pietro Citati («Ai tempi di Petrolio, Pasolini […] voleva essere posseduto, dominato, violentato. Voleva conoscere la vita nel momento della lacerazione e della morte. Solo così poteva contemplare il sacro»). Ma, lo sottolineo, non si trattava semplicemente di giudizi critici negativi sulla riuscita dell’opera. Essi puntavano all’autore, all’uomo che l’ha scritta, della cui deriva sessuale l’opera non sarebbe che una patografia, negandole così persino il diritto a essere considerata un’opera letteraria: solo la traccia documentaria di un abisso biografico o di una patologia psichica, un “documento”, appunto, un “referto”.
Non credo che esista un caso analogo – perlomeno io non ne conosco – di un’opera altrettanto importante e altrettanto martoriata negli anni: prima nella stesura, forzatamente interrotta, poi nella pubblicazione ritardata e per di più mutila, infine nella sua ricezione da parte di giornalisti culturali, critici e scrittori.
Forse da tutta questa vicenda si potrà ricavare qualcosa anche sull’Italia, sui suoi letterati, sui suoi giornalisti culturali, chissà. Ma spesso mi sono chiesta che cosa sarebbe successo a Pasolini se il cinema non gli avesse permesso di uscire da questo milieu, e di essere conosciuto internazionalmente attraverso il linguaggio filmico, che non ha confini linguistici.
Occorrerà perciò ridare a Petrolio ciò che gli è stato sottratto. Ovviamente non possiamo sostituirci a Pasolini per dare noi un compimento a ciò che gli è stato impedito di portare a termine, né risarcirlo della pubblicazione ritardata. Però possiamo pretendere una nuova edizione di Petrolio, integrata dei materiali e delle parti mancanti, e nuove letture critiche adeguate alla sua complessità e profondità, sia artistica che prefigurativa.
I tre discorsi di Eugenio Cefis, che Pasolini intendeva inserire in Petrolio e di cui si parla nell’articolo, sono stati pubblicati in appendice al libro di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti, Frocio e basta. Pasolini, Cefis, Petrolio (Effigie, 2016)