Lo scorso ottobre, l’Accademia Reale delle Scienze svedese ha assegnato il premio Nobel per l’Economia ad Abhijit Banerjee e a Esther Duflo (oltre che a Michael Kremer) «per il loro approccio sperimentale per alleviare la povertà globale». Banerjee e Duflo, che insegnano negli Stati Uniti al Massachusetts Institute of Technology e sono marito e moglie, intervengono in streaming al Festivaletteratura di Mantova venerdì 11 settembre, in occasione della pubblicazione in Italia del loro saggio Una buona economia per tempi difficili, edito da Laterza. In questa intervista congiunta ragionano sulle maggiori questioni sollevate dalla pandemia di Covid-19.
L’impressione è che la pandemia stia rafforzando le tendenze che sottolineate nel vostro libro. Quanto saranno rilevanti gli effetti di Covid-19 e dei lockdown sulla povertà?
ESTHER DUFLO — Ovviamente resta da vedere. Ma è importante ricordare che non dipenderà solo da quanto bene l’epidemia viene gestita, ma anche da quanto i governi sono disposti ad agire e in grado di farlo per proteggere i cittadini dalla sua ricaduta economica. Le malattie colpiscono i poveri più del resto della popolazione, almeno nei Paesi che noi conosciamo bene, e così è successo per il lockdown, dal momento che le persone con redditi bassi, tipicamente, non hanno sicurezza dell’impiego ed è improbabile che siano in grado di lavorare da casa, a differenza di chi per esempio opera nell’economia della conoscenza. Se anche i governi non sono in grado di supportarli, le conseguenze economiche potrebbero essere disastrose.
Il buon funzionamento dello Stato e delle istituzioni, la buona governance e la buona leadership sembrano fattori chiave nell’affrontare la pandemia, dalla Germania alla Nuova Zelanda alla Corea del Sud. Pensate che ciò sia destinato a dare forma al futuro della politica e persino della geopolitica? Possiamo immaginare migrazioni da Paesi gestiti male dopo il virus, come nel caso della Finlandia dopo la Seconda guerra mondiale, che voi ricordate nel libro?
ABHIJIT BANERJEE — Chiaramente, per i governi questo potrebbe essere un momento cruciale. Prima della pandemia c’erano, come abbiamo spiegato nel libro, un disprezzo e una diffidenza crescenti verso i governi. La pandemia ha evidenziato la necessità di avere apparati statali efficaci: solo un governo può imporre l’obbligo di indossare la mascherina o decidere un lockdown. Solo uno Stato può prendere a prestito o stampare denaro per sostenere i suoi cittadini che affrontano le conseguenze della crisi. Solo uno Stato può impegnarsi a fornire l’accesso universale ai vaccini, quando diventano disponibili. Quindi, se i governi hanno una performance positiva nella crisi, ciò li aiuterà a costruire credibilità e fiducia. Se falliscono, potrebbe esserci un crollo completo, non solo delle forze al potere, ma dell’intero assetto delle istituzioni democratiche. Riteniamo che questo sia un grande pericolo per gli Stati Uniti. Chissà se ciò darà il via a una migrazione verso altri Paesi… ma certamente chiunque negli Stati Uniti ha i titoli per accedere a un passaporto europeo al momento sta cercando di procurarselo.
Pensate che la pandemia possa essere l’occasione per dare alla «dignità umana» un ruolo centrale anche nell’economia? Per esempio, riconoscendo il ruolo dei lavoratori che hanno mantenuto in funzione le società durante i lockdown?
ESTHER DUFLO — Sì, potenzialmente ci sono alcuni risvolti positivi in uno choc di questa portata. Uno è che potrebbe cambiare la nozione di che cosa significa la necessità dell’assistenza pubblica. Tante persone che considerano sé stesse cittadini virtuosi all’improvviso hanno bisogno di aiuto: è possibile che ora capiscano che il sostegno non è solo per le persone pigre; e che un sussidio non ti rende pigro. Ciò può indurre un cambiamento necessario nel nostro sistema di protezione sociale. Un aspetto importante del modo in cui la maggior parte dei Paesi europei ha protetto i lavoratori rimasti senza impiego — cioè preservando il loro posto e pagando i loro salari — è che ciò è avvenuto senza soluzione di continuità: le persone non hanno dovuto umiliarsi per accedere a quel beneficio. È stato automatico, la compensazione naturale per lo sforzo collettivo di combattere il virus. Lo stesso spirito potrebbe — e noi lo speriamo — essere esteso alla protezione sociale in generale.
Come illustrate nel vostro libro, è complicato capire gli effetti del commercio internazionale sui salari, sulla disoccupazione, sulle disuguaglianze. Ma ora, nel mondo, viviamo in un clima molto più protezionista di prima. Qual è la vostra lettura della situazione attuale?
ABHIJIT BANERJEE — In marzo e aprile la domanda di deglobalizzazione era certamente molto presente, soprattutto in Europa. Ma poi è diventato chiaro che la Cina sta producendo e vendendoci le mascherine di cui abbiamo bisogno per combattere la malattia, anche più di quello di cui abbiamo necessità. Nel nostro libro siamo molto critici sull’impatto del commercio internazionale, ma attribuire colpe del suo sviluppo alla pandemia di Covid-19 sembra piuttosto assurdo. E, nonostante i problemi che pongono in origine, ora gli scambi ci stanno aiutando a limitare la crisi.
Come vedete il decoupling totale o parziale, la separazione, tra le economie americana e cinese? Nella tecnologia, nel commercio, nella finanza, persino nell’accademia. E i rischi che questo comporta.
ABHIJIT BANERJEE — Non abbiamo una palla di vetro. Ma il decoupling sembra improbabile. I legami economici tra i due Paesi sono molto forti e reciderli non è nell’interesse di nessuno, qualsiasi cosa dica Trump. Quindi, troveranno un modo…
È diffusa l’impressione che le risposte alla pandemia abbiano ridotto lo standing e la reputazione sia degli Stati Uniti sia della Cina. Politicamente e come modelli sociali ed economici. Che cosa ne pensate?
ABHIJIT BANERJEE — Non serve un esperto di relazioni internazionali per capire che né la Cina né gli Stati Uniti escono dal Covid-19 come grandi protagonisti positivi. Noi speriamo molto che l’Europa abbia la capacità di emergere come uno dei nuovi leader di cui il mondo ha ora bisogno.
Leggendo il vostro libro, si intende che gli Stati Uniti perderebbero molto meno che il resto del mondo adottando un modello economico autarchico. Ciò potrebbe diventare un problema globale se la guerra commerciale tra Usa e Cina si intensificasse?
ESTHER DUFLO — Nel libro discutiamo ricerche importanti del nostro collega Arnaud Costinot, le quali mostrano che gli Stati Uniti non perderebbero molto se fossero completamente autarchici, perché la loro è un’economia assai diversificata e il commercio estero non è un’enorme quota del Pil. È il motivo per il quale gli Stati Uniti possono permettersi di adottare una retorica anti-commercio. Detto questo, ciò descrive solo la situazione dopo che gli aggiustamenti alla nuova autarchia fossero avvenuti. Ma andare in quella direzione sarebbe molto doloroso nel breve periodo, non diversamente da quanto inflitto in passato dall’apertura degli scambi e dalla crescita della Cina. Per esempio, il settore agricolo dovrebbe ridursi, perché non venderemmo più alla Cina; ma gli agricoltori non sarebbero immediatamente in grado di trasformarsi in lavoratori della manifattura, capaci di produrre ciò che Pechino non ci fornisse più. Ogni transizione di questo genere tende a essere costosa e difficile. Inoltre, sembra che la Borsa reagisca molto negativamente a ogni cattiva notizia che riguarda il commercio. Alla fine, insomma, la nostra ipotesi è che gli Stati Uniti non realizzeranno la minaccia del decoupling dalla Cina.
Qual è la vostra opinione sugli sviluppi più recenti del movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti? E qual è il ruolo della «discriminazione statistica» nel comportamento della polizia americana? È una forma di razzismo?
ESTHER DUFLO — Statistical discrimination è ciò che alcuni fanno quando cercano di usare la razza (o il gender) degli altri per dedurre qualcosa su di loro. Per esempio, i poliziotti possono fermare e perquisire soprattutto giovani neri maschi perché, nella loro esperienza, è più probabile che i giovani neri siano in possesso di droghe, persino se personalmente non hanno niente contro di essi. La «discriminazione statistica» è razzismo, dal momento che usa la razza per dedurre le intenzioni e guidare le azioni. Gli sforzi degli economisti di separare con cura le discriminazioni legate alle preferenze di una persona (quelle peggiori) dalla «discriminazione statistica» (che potrebbe essere in qualche modo scusabile) sembrano un po’ futili. Come discutiamo nel capitolo sull’identità — che dal nostro punto di vista è forse il più importante del libro — sia il nostro giudizio sulle persone sia il nostro interesse per loro sono il prodotto dell’esperienza accumulata, sono il modo in cui vediamo il comportamento delle persone attorno a noi, ciò che è accettabile o non lo è in ogni momento dato. Vale per la polizia; vale per gli insegnanti; vale per i pazienti in ospedale quando pensano che una giovane dottoressa tirocinante nera debba essere una persona delle pulizie.
Con quali conseguenze?
ESTHER DUFLO — Due conseguenze: la prima è che non abbiamo motivo di essere timidi nel cercare di regolare il comportamento razzista per espellerlo. È dannoso per la società e nel vietarlo non stiamo in qualche modo togliendo alle persone il loro diritto all’identità: il contrario di quello che i politici come Trump amano dire. La seconda conseguenza è che dobbiamo iniziare molto presto, in modo sistematico, a educare i nostri figli a essere tolleranti, forse soprattutto mettendoli in contatto con «l’altro», nelle scuole, negli sport, nel vicinato.
Veniamo al lavoro da casa, che ha avuto un boom con la pandemia. Pensate che possa ridurre l’innovazione e portare a un declino della Silicon Valley? Il cosiddetto «effetto densità» sta perdendo rilevanza?
ABHIJIT BANERJEE — Alcuni nostri colleghi stanno studiando il density effect e i loro risultati preliminari suggeriscono che, quando le persone si incontrano più spesso nei caffè e hanno altri scambi occasionali di quel genere, è più probabile che acquisiscano consapevolezza del lavoro degli altri e la usino per il loro. Questi incontri causali vanno persi nel distanziamento sociale. È doloroso e probabilmente alla fine avrà effetti sulla produttività. Detto questo, è difficile pensare che si tratti di una perdita di prima grandezza, se paragonata al fatto che non siamo in grado di produrre e consumare nel modo in cui eravamo abituati.
Negli Usa, in Europa, un po’ in tutto il mondo cresce il ruolo dello Stato. Interventi nell’economia, nuove politiche industriali, costruzione di campioni nazionali. Per affrontare la Cina corriamo il rischio di diventare più cinesi?
ESTHER DUFLO — Gli Stati Uniti hanno una lunga strada da fare prima di diventare Cina. E potrebbero certamente permettersi un po’ più di intervento dello Stato, anche un po’ più razionale.