Mai come adesso la città è sotto accusa. Ha mostrato tutte le sue criticità nei giorni della pandemia. Architetti e urbanisti ne denunciano ogni volta l’obsolescenza degli alloggi e degli aggregati urbani, l’insufficienza degli spazi pubblici, l’inadeguata funzionalità dell’edilizia sociale, la superata organizzazione dei luoghi del lavoro. Insomma buona parte di ciò che compone l’ambiente che abitiamo che è poi la conseguenza dell’applicazione delle loro discipline.
Pensare il futuro non è semplice ed è ancora più difficile per chi sta all’interno del sistema che muove lo sviluppo urbano e ne asseconda gli interessi mercantili, ma si sente comunque in dovere di indicare delle soluzioni.
I MEDIA hanno già dato ampio risalto all’esercizio rivolto a immaginare gli anni a venire che vedranno convivere l’uomo con i virus o altri rischi. Una comunità di esperti vi si dedica applicando le tecniche della resilienza urbana, senza però mai mettere veramente in discussione le cause che hanno originato i dissesti dell’ecosistema planetario.
È logico allora suggerire qualche argomento che rinvia ai progetti degli anni ’60, chiamati «utopistici» solo per un’erronea consuetudine, e alla loro carica ideale nutrita di speranza e coscienza della perdita. Si potrà così riscontrare quanto la loro spinta immaginifica sia stata lungimirante sul futuro, rispetto ai tentativi dell’oggi così fedeli ai dogmi neoliberisti. Una serie di recenti pubblicazioni su quella stagione offre la giusta occasione per comprenderlo meglio.
Iniziamo dal libro-catalogo Cloud ’68 – Paper Voice (gta Verlag, 2020) ideato per l’omonima mostra all’Eth di Zurigo di due anni fa sulla collezione di Smiljan Radic. Il volume illustra la ricca raccolta dell’architetto cileno composta di stampe, disegni e manifesti riguardanti l’architettura e il design radicale sia di gruppi (Internazionale Situazionista, Superstudio, Archigram, Utopie), sia di singole figure (Hans Hollein, Claude Parent, Paolo Soleri).
Sfogliandolo, ci si rende conto quanto ricca ed eterogenea sia stata la composizione di quella galassia anti-funzionalista e sperimentale che – suggestionata dalla letteratura di fantascienza, dall’arte, dalle ricerche spaziali e dalla robotica – ipotizzava una «città alternativa per una vita alternativa».
Ad esempio, nella New Babylon dell’artista Constant, la città per eccellenza dell’Internazionale Situazionista, dove le architetture erano flessibili e definite di volta in volta dalle esigenze collettive dei suoi abitanti, emancipati dal lavoro perché ormai automatizzato. Lì si prevedevano altri stili di vita per abitare spazi «scultorei ed effimeri, quelli che inspirano le stesse architetture di Radic.
TOM MCDONOUGH illustrò con cura la città situazionista (The Situationists and the City, 2009), ma Lori Waxman con il suo saggio Keep Walking Intently (SternberPress, 2020), ora di nuovo disponibile, ci fa meglio comprendere come vi agisse la «psicogeografia», una tecnica fondata sul vagabondaggio casuale producente impatti emotivi con l’ambiente, costruito sulla percezione e sul comportamento. I situazionisti saggiarono empiricamente – prima ancora che gli attuali architetti scoprissero le neuroscienze – l’importanza dei segnali psichici dei loro spostamenti. Ne fornirono prova nella mappa alternativa di Parigi ordinata secondo regole che andavano oltre la flâneurie di baudeleriana memoria.
Chissà cosa avrebbe mai pensato Guy Debord, il loro teorico più brillante, sull’applicazione della «psicogeografia» alle città rese deserte dal lockdown. Nel nostro «tempo spettacolare», infatti, ci sarebbe da dire molto guardando solo agli aspetti psichici.
È l’intenzionalità politica ciò che allora qualificò l’agire delle neoavanguardie radicali e lo attestano i contatti con il pensiero marxista di Henri Lefebvre. Con il filosofo francese essi condivisero l’idea che anche lo spazio urbano è «prodotto» del sistema neocapitalista come gli oggetti fabbricati e i contenitori che li includono. Una tesi del tutto estranea ai protagonisti del dibattito contemporaneo ai quali sfugge la messa in discussione delle cause generatrici degli «spazi malati» delle nostre città.
SULL’IMPORTANZA della politica è interessante ripercorrere anche le vicende del gruppo Superstudio. Dopo la pionieristica ricerca degli statunitensi Peter Lang e William Menking (Superstudio, Skira, 2003) e la meritevole sistemazione storiografica di Gabriele Mastrigli (Superstudio, Opere 1966-1978, Quodlibet, 2016), vi ritornano Roberto Gargiani e Beatrice Lampariello con Il Monumento Continuo di Superstudio (Sagep, 2019). I due storici rinnovano la nostra attenzione sulla storia del gruppo fiorentino partendo dalla serie di fotomontaggi della loro rappresentazione metaforica più famosa. Formatosi all’inizio degli anni Sessanta all’interno dell’Università di Firenze, Superstudio, nel giro di pochi anni assocerà, all’originario nucleo composto da Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia, le personalità di Roberto e Alessandro Magris, Gian Piero Frassinelli e Alessandro Poli. Insieme all’altro gruppo fiorentino Archizoom Associati (Paolo Deganello, Massimo Morozzi, Andrea Branzi e Gilberto Corretti), nel capoluogo toscano, nell’arco di circa un ventennio, si svilupperà una produzione originale di oggetti di design e di surreali architetture disegnate critiche della società del benessere, del funzionalismo del dopoguerra – lascito del Movimento Moderno – e pervase di scetticismo nei confronti della tecnologia, che, al contrario, appassionava gli inglesi di Archigram.
IL MONUMENTO CONTINUO (1969) è una megastruttura infinita, prismatica e reticolare sovrastante porzioni di città e di paesaggio. Si può immaginarla come un enorme oggetto presente su tutto il globo terrestre e nella sua icastica solitudine, un prodotto distopico del modello neocapitalista. All’architettura radicale si può rimproverare di essersi rinchiusa in polemici grafismi e nella creazione d’insoliti oggetti, che era onestamente velleitario credere fossero capaci di incidere nella «realtà urbana». Di questa, conoscendo le sue mobili dinamiche spazio-temporali, ieri come oggi, è illusorio credere che gli architetti possano intaccare il meccanismo del «valore di scambio» che la sostiene. Per farlo (ancora con Lefebvre) sono richieste strategie complesse per dare un altro significato alla «vita quotidiana divisa in frammenti» e all’«essere umano smembrato e dissociato».
Gian Piero Frassinelli in Superstudio, applicò i metodi antropologici all’analisi dell’architettura nel tentativo di superarne i vincoli, come racconta in Design e antropologia, riflessioni di un non addetto ai lavori (Introduzione di Gianfranco Bombaci, Quodlibet, 2019). Nelle pagine centrali della raccolta espone le sue riflessioni che hanno come fulcro l’uomo, con i suoi segni, simboli e comportamenti.
PER COMPRENDERE un mondo che cambia come non l’avevamo ancora visto, Frassinelli ci presenta riordinate per lo Ied di Roma, le sue «comunicazioni» del decennio scorso frutto delle sue ricerche di trent’anni prima. Messi da parte i fotomontaggi che resero famosi il gruppo fiorentino, ma sulla scorta delle tesi di Latouche sulla «decrescita serena», di Majid Rahnema e Jean Robert sulla povertà o di Victor Papanek e Donald Norman sul design, Frassinelli giunge a fornirci una lucida chiave di lettura dei nostri tempi richiamandosi, appunto, al suo ricco bagaglio culturale di critica della modernità occidentale.
I suoi giudizi non mancano di essere interessanti e utili quando ad esempio narra da testimone la «psicopatologia» della mostra newyorkese del MoMa, Italy. The new Domestic Landscape (1972), o «demitizza» le questioni dell’abitare sociale consentendoci di tornare alla sua eloquente e trascurata prova ad Amsterdam delle residenze Vierwind Huis (1990).
Alle «nuvole di pensiero» dell’architettura radicale occorrerà ancora guardare con interesse. Sarà necessario per riconsegnare l’architettura a una prospettiva ideale per il cambiamento, ma soprattutto per non assimilarla com’è sempre più evidente, a una mesta e unica pratica tecnocratica.