Quelli che si terranno domenica prossima in Lombardia e Veneto sono due referendum consultivi indetti sulla base del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, che prevede la possibilità per tutte le regioni di assumere l’iniziativa per chiedere una maggiore autonomia. La legge dovrà poi essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Il legislatore costituente del 2001 aveva, quindi, immaginato con la riforma del titolo V della parte II della Costituzione (quella sull’ordinamento dello Stato) una via concreta per realizzare in Italia un vero regionalismo differenziato.
Siamo di fronte al primo caso di applicazione di questa norma ed è opportuno sottolineare l’assenza di obbligatorietà del ricorso al referendum, che, secondo i promotori, darà più legittimazione alle richieste, ma al tempo stesso ha dei costi e rischia di aumentare tensioni istituzionali e sociali. L’Emilia-Romagna ha, infatti, attivato le medesime procedure senza ricorrere ad alcuna consultazione, pur essendo da rilevare che è guidata da una giunta espressione delle stesse forze politiche attualmente al governo nazionale a differenza delle altre due regioni, rette invece dal centrodestra.
Assai spesso viene tirata in ballo a sproposito la situazione in Catalogna, dove alcune settimane fa si è svolto un referendum incostituzionale sull’indipendenza della comunità autonoma catalana dalla Spagna, che vuole rompere l’unità nazionale e sta generando un fortissimo conflitto istituzionale e politico. La consultazione lombardo-veneta si svolge invece all’interno del perimetro delle regole dell’ordinamento italiano e nel rispetto della giurisprudenza della Corte costituzionale. La sentenza 118/2015 della Consulta, infatti, ha ritenuto incostituzionali tutti i quesiti proposti dal Veneto tranne uno generico che ricalca la lettera del terzo comma del citato articolo 116 (tra i quesiti eliminati ve ne era uno consultivo sull’indipendenza). Senza dubbio l’“appello al popolo” è finalizzato a una investitura più forte per le successive rivendicazioni, ma le forze del conflitto appaiono frammentate e la vicenda risulta meno esplosiva.
I referendum sono consultivi e prevedono entrambi un solo quesito (la Lombardia ne aveva presentato solo uno fin dall’inizio), ma divergono per la sussistenza di un quorum da raggiungere solo in Veneto, dove la legge regionale stabilisce che per considerare valido il risultato debba esprimersi almeno il 50% +1 dei votanti, pur essendo evidente che anche in Lombardia sarebbe una sconfitta politica per i promotori restare sotto questa soglia. Un’altra differenza consiste nel fatto che per la prima volta in Lombardia si voterà tramite dispositivi elettronici (sistema di e-voting), mentre in Veneto si utilizzeranno le classiche schede cartacee.
Avvicinandosi la scadenza, crescono anche le polemiche: quella che sta prendendo maggiormente piede riguarda i costi, che a tanti appaiono ingiustificati per una procedura che poteva essere avviata senza ricorrere a una consultazione indetta dai presidenti leghisti alla ricerca di una legittimazione dal sapore un po’ propagandistico, il cui valore è stato poi ulteriormente annacquato dalla posizione genericamente favorevole di tutte le principali forze politiche. Le spese dovrebbero essere di circa 50 milioni in Lombardia e di circa 15 in Veneto, oltre ad alcuni costi da valutare, come quelli relativi al rimborso chiesto dal Ministero dell’Interno per coprire gli straordinari delle forze dell’ordine chiamate a vigilare sui seggi.
I referendum sono consultivi e, quindi, non vincolanti, ma assumono un valore politico: il mandato popolare è, dunque, funzionale a ottenere un maggior potere di contrattazione con lo Stato centrale, mentre un flop di partecipazione diminuirebbe la forza delle richieste. Resta aperta la questione centrale: un regionalismo differenziato in Italia è possibile e questo scenario è addirittura previsto in Costituzione, ma devono esserci determinate condizioni (ad esempio, un apparato amministrativo efficiente) e ragioni più profonde dell’egoismo fiscale.