TOMASO MONTANARI
Il parallelo con quanto accade negli Stati Uniti non regge. Lì a chiedere, o ad attuare, l’abbattimento delle statue dei generali sudisti e dei politici schiavisti è una agguerrita opposizione civica che contesta un presidente che, in modo inaudito, simpatizza con quella terribile storia. È Trump, insomma, ad aver ridato forza e vita a quelle statue: e chi le abbatte cerca di abbattere Trump, almeno in effigie. Un fenomeno comprensibile, anche se pieno di contraddizioni e di pericoli, come ha ben spiegato Ian Buruma.
Ma da noi è, paradossalmente, il contrario: sono uomini del partito di governo a dichiarare di voler mettere le mani sui monumenti.
Ora, l’architetto Fiano e i suoi colleghi dovrebbero sapere che si tratta di monumenti tutelati dalla legge e dalla Costituzione repubblicana, e che dunque chi li manomettesse commetterebbe un reato. E, soprattutto, un partito di governo che proponga di mutilare i monumenti (per quanto nobile sia l’obiettivo finale) trasmette un messaggio di impotenza: di una politica ridotta a propaganda. Perché i governi democratici, a differenza di quelli autoritari, non praticano l’iconoclastia: essi hanno il dovere di utilizzare strumenti ben più potenti e appropriati.
Per esempio, si vorrebbe vedere rivolta contro i troppi gruppi dichiaratamente neofascisti o neonazisti anche solo una piccola parte della forza di polizia usata negli ultimi mesi contro i poveri, i marginali, i migranti. Prima ancora: il governo dispone di strumenti di intelligence, e credo che sarebbe ora di veder chiaro nelle sorprendenti ramificazioni e negli intrecci che legano non i monumenti di pietra, ma i neofascisti in carne ed ossa, ad ambienti insospettabili. Mi riferisco, per esempio, al pentolone scoperchiato dalla documentatissima inchiesta del collettivo di scrittori WuMing provocatoriamente (ma non gratuitamente) intitolata CasaP( oun)D. Rapporti con l’estrema destra nel ventre del partito renziano. Ed è ben noto che da inquinamenti di questo tipo non è esente il Movimento 5 stelle.
Dal governo di una Repubblica fondata anche sullo «sviluppo della cultura» e sulla «ricerca » ci si aspetta non la cancellazione delle scritte sui monumenti di ottant’anni fa, ma la costruzione di strumenti per leggere storicamente e moralmente quelle scritte. Il disinvestimento nella cultura e nella scuola, il sottofinanziamento dell’università e il loro orientamento sempre più professionalizzante rappresentano uno smantellamento della formazione alla cittadinanza, e dunque una distruzione dei veri anticorpi antifascisti.
Per rispondere al terribile fascismo fiorentino degli anni venti, Nello Rosselli progettava di fondare biblioteche per ragazzi in ogni quartiere della città, e mentre era chiuso in carcere Antonio Gramsci rifletteva sull’urgenza di dotare l’Italia di «servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei suoi vari gradi », quelli che « non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma che in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province): il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici». E non si pensa senza vergogna alla nostra attuale incapacità di costruire a Milano un vero Museo della Resistenza, cioè un grande centro di ricerca, capace di redistribuire conoscenza critica attraverso i canali più moderni.
Da un partito di governo dell’Italia democratica del 2017 non ci si aspetta, insomma, una propaganda iconoclasta, ma un progetto culturale che costruisca l’antifascismo attraverso la cultura: non la cancellazione delle contraddizioni storiche, ma la capacità di mettere tutti in grado di interpretarle. Non la finzione che il fascismo non sia stato: ma la forza culturale e morale per meditare «che questo è stato» (Primo Levi).