Ifigli sono i tamponi delle classi sociali: laddove i genitori spesso fanno finta di non essere quello che sono, i figli danno sempre risposte certe. È per questo che nella lista degli allievi dell’Istituto Le Rosey – Svizzera, anno di fondazione 1880, rette annue da circa 46.000 euro a circa 82.000 euro per gli studenti “junior” – ci si imbatte nei figli di Churchill e di John Lennon, nell’espatriato Re Juan Carlos di Spagna e nei figli di Elizabeth Taylor, nel “nostro” Emanuele Filiberto di Savoia e in Julian Casablancas (cantante degli Strokes, figlio di John, fondatore della Elite Model Management, quella di Cindy Crawford, Stephanie Seymour, Linda Evangelista, Naomi Campbell, eccetera). Proprio così: tutti insieme appassionatamente, in un ambiente che da quasi un secolo e mezzo mischia i rampolli della nobiltà europea e medio orientale (Aga Khan, Duchi di Kent, Hohenzollern, Pahlavi, Ranieri di Monaco, Borghese, eccetera), gli eredi dell’élite finanziaria e imprenditoriale mondiale (Rothschild, Rockefeller, Negroponte, Onassis, Stavros Niarchos, Getty, eccetera) e i discendenti dell’industria culturale di dimensione planetaria (i figli di Diana Ross, Roger Moore e David Niven, il fondatore della casa editrice Simon & Schuster, qualche giornalista del New York Times, eccetera). L’Istituto Le Rosey è solo la punta dell’iceberg di un universo complesso e ramificato. In Svizzera sono infatti più di dieci le strutture che – per rette annue superiori ai 70.000 euro – promettono lo stesso tipo di rango educativo. Una realtà che peraltro, ad ogni latitudine, vanta ormai tante repliche al ribasso: è il caso, ad esempio, della Keystone Academy di Pechino (fino a 45.000 euro l’anno di retta), della UWC Thailand International School (circa 20.000 euro), della St. Stephen’s School di Roma (circa 25.000 euro), della Fulford Academy canadese (37.500 euro), della North Broward Preparatory School (Florida, circa 57.000 euro) e così via.
È curioso, ma sembra che lo schema dell’istruzione d’alto lignaggio ricalchi l’architettura del capitalismo mondiale. Al centro gli esclusivi collegi svizzeri, dove studia la discendenza dell’élite apolide e transnazionale. In periferia, le scuole private indigene, dove per cifre relativamente più basse studiano i figli della “borghesia vendedora”, quella delle famose “riforme” (austerità, privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli al welfare e distruzione della domanda interna).
Torniamo però ai cari studenti dell’Istituto Le Rosey. Cosa ottengono in cambio dei circa 115.000 euro annui versati da ogni iscritto “senior”? Innanzitutto due sontuosi campus, uno a Rolle, sul lago di Ginevra, e l’altro in montagna, a Gstaad. I due centri, nemmeno a dirlo, sono provvisti di qualunque comodità. Nel primo caso, quello di Rolle, di un castello medievale per reception, cinquanta aule, otto laboratori scientifici, una biblioteca con 30.000 volumi, un teatro, un auditorium, tre sale da pranzo, due mense, sport di qualsiasi tipo: golf, equitazione (centro ippico), nuoto (piscina), tennis (10 campi), tiro con l’arco, poligono, vela, addirittura la possibilità di avere lezioni di volo. Nel secondo caso, quello di Gstaad (città che vanta tra i residenti George Soros, Bernie Ecclestone e Roman Polanski), accoglienti chalet dove risiedere e studiare la mattina, e meravigliose piste da sci dove spendersi nel pomeriggio. L’esistenza del campus di Gstaad è bizzarra perché ha sostanzialmente una ragione umorale. A partire dal 1916, nel mezzo del mattatoio della Prima Guerra Mondiale, la dirigenza Le Rosey ha infatti valutato che non fosse il caso di rattristare i suoi ragazzi con la nebbia e l’umidità del lago. Dunque, da gennaio a marzo, tutti a svernare al cospetto del sole e degli incantevoli panorami delle Alpi Bernesi.
Gli studenti della Le Rosey vengono cresciuti secondo tutti i crismi tradizionali: campus separati tra ragazzi e ragazze, rapporto alunni-professori di 5 a 1, sei giorni di studio su sette, due lingue d’insegnamento (inglese e francese), una terza lingua obbligatoria e una quarta facoltativa. C’è ovviamente una gerarchia tra le materie studiate. Non corrispondendo i cicli con quelli della nostra scuola pubblica, si può dire approssimativamente che si inizia e si continua fino ai 10 anni con una sequenza formativa che dà la precedenza alle discipline umanistiche (storia e geografia) seguite dall’inglese, dal francese, dalla matematica e le scienze. A scendere, ci sono le ore dedicate alla terza o quarta lingua, alle arti (arti visive, teatro e musica), all’eventuale lingua madre (se non francese o inglese) e alla tecnologia. Poi, con il passare degli anni e fino al diploma, tale impalcatura viene rafforzata con notevoli iniezioni di economia, scienze politiche, matematica, biologia, chimica, fisica e informatica. Tutto questo, ovviamente, nella cornice di un serio impegno. La “tipica” giornata nell’Istituto inizia con la sveglia alle 7 e finisce – tra tutte le attività e lo sport – alle 18.30. La cena è servita alle 18.50. I più piccoli vanno a letto alle 20.45. Si viene espulsi per direttissima se si viene trovati in possesso di droga (per la quale non è possibile sottrarsi ai test), se si lascia il campus senza permesso e se si è trovati a rubare. Si va invece davanti a un consiglio di disciplina nel caso di violenze fisiche o verbali, consumo di alcol, fumo (c’è un programma apposito per smettere), amoreggiamento in pubblico e molte altre fattispecie di comportamento. I campus sono chiusi, per entrare e uscire esistono delle procedure. Gli studenti portano un braccialetto con microchip, devono vestirsi in maniera appropriata (c’è una divisa per le varie occasioni), non possono mostrare tatuaggi o piercing e il trucco è generalmente proibito (se non per le ragazze più grandi, per le quali comunque non deve essere troppo visibile). Causano l’applicazione di specifiche sanzioni e sono espressamente vietate le giacche jeans o di pelle, le felpe col cappuccio, i cappellini, le scollature, la biancheria intima visibile, l’ombelico in vista, le spalle scoperte, le scarpe con il tacco molto alto e quelle da ginnastica: ovvero tutto il campionario estetico pubblicizzato, sublimato ed esaltato a beneficio dei figli di chi un collegio svizzero non può permetterselo.
Nessuno insegnerà agli allievi della Le Rosey che essere pagati per giocare Fortnite è un lavoro, che è cool chi si esibisce con gli scarabocchi in faccia, che è bene spendere una giornata a fare video demenziali da postare sui social, che dare spettacolo nei canali porno è una professione come un’altra. E ciò non accadrà per una semplice ragione: perché i suoi studenti sono i figli della classe dominante. La quale classe dominante, ormai da decenni, ha sottilmente perfezionato per tutti gli altri, per i figli altrui, un’ideologia dell’educazione a misura di quella che Marcuse chiamava “coscienza felice”. Gran parte degli esperti odierni di politiche educative e formative concorda infatti nel sostenere che i sistemi educativi pubblici e privati vadano ibridati, che ci si diriga verso un mondo fatto di formazione permanente, che sia necessaria una contaminazione tra esperienze formative e lavorative.
“Post educazione” è la magica locuzione che generalmente viene usata per dire che le opportunità di formazione non stanno più dentro scatole dai confini precisi ma che vadano colte di volta in volta nella vita. In sostanza, si vorrebbe che gli studenti non imparassero secondo gli schemi ingessati del passato (quelli che nei collegi svizzeri sembrano invece prendere molto sul serio), ma che “imparassero a imparare” all’interno di un percorso di crescita nel quale insegnanti, professori e centri di formazione ricoprissero più un ruolo di supporto che di trasmettitori di sapere. Per quest’ultimo, l’apprendimento vero e proprio, ci sarebbe quindi la rete e i suoi corsi digitali, MOOC (Massive Open On-line Courses) delle più prestigiose università americane inclusi. Insomma, una bella favola se non fosse che le occasioni giuste, nel mondo reale come in rete, le può cogliere solo chi già sa, chi è stato istruito duramente e ha acquisito un metodo di studio, chi fa parte di una rete sociale che lo informa tempestivamente. E per questo, in assenza di una scuola pubblica ben finanziata, autorevole e altamente formativa (come avviene per i collegi privati), occorrerà giocoforza mettersi in fila dietro i ragazzi dai quali siamo partiti.
Anni fa, lo storico Alessandro Barbero lamentò in un suo appassionato intervento sulla riforma della “Buona Scuola” del governo Renzi (èStoria, Roma, 28 maggio 2017) che:
Si dava per scontato che chi andava a scuola doveva uscirne essendo consapevole a grandi linee di tutte le cose più importanti della cultura. Il problema era chi andava a scuola. Per molto tempo a scuola ci andavano in pochi e andava bene così. Perché, guarda caso, quando ci andavano in pochi, si dava per scontato che andare a scuola era indispensabile per avere poi un ruolo dirigenziale nella vita [….] Poi sappiamo tutti cosa è successo: si è detto che democraticamente tutti devono avere accesso a questo, tutti devono passare tanti anni durante i quali studiano e si impadroniscono della cultura comune, non solo le élite. Anni e anni nei quali i ragazzi studiano e imparano anziché dover lavorare, come è sempre successo ai propri padri e ai propri nonni […] E poi in questo percorso si è iniziato a dire: ‘Sì, però, il latino andava bene per tutti finché erano soltanto i padroni che andavano a scuola, adesso che ci vanno i figli degli operai a cosa serve?’, ‘Ma il libro di testo dopotutto serve?’ Oggi poi, che abbiamo tutte queste meraviglie, che si fa tutto on-line, ‘a cosa serve?’ E infine si è cominciato a dire – e lì il ritorno indietro – ‘Ma siamo sicuri che tutto questo serva?’
Così questa grande conquista per la quale tutti andavano a scuola e passavano molti anni senza chiedersi a cosa servisse specificatamente una materia, non va più bene. Si è cominciato a dire che per mandare la gente a scuola la cosa doveva servire al mondo del lavoro e si è arrivati all’assurdità di affermare ai ragazzi – come ai loro nonni analfabeti – che ‘Anche se avete 16 o 17 anni, però un po’ di lavoro lo dovete fare, cos’è questo lusso di passare il tempo solo a scuola?
Alessandro Barbero
Sintetizzando, le tendenze in atto sono chiare. Per i figli delle élite, la scuola vecchio stampo con tutte le accortezze pedagogiche, le facilitazioni, le strutture, le tecnologie che può offrire la modernità. Per gli altri, un sofisticato “arrangiatevi” che baratta la solita illusione di libertà per una sostanziale solitudine.