di Stefano Folli
Ieri non è successo niente che non fosse previsto. Era ovvio che il Pd si sarebbe pronunciato in modo tardivo e non senza sofferenza a favore del Sì. Ed era evidente che la priorità di Zingaretti, avendo trascinato le decisioni formali fino a meno di due settimane dal referendum, consisteva nell’evitare ulteriori lacerazioni del partito. Non solo perché un gran numero di esponenti di primo piano è per il No, a cominciare dai protagonisti dell’era ulivista, Prodi e Parisi, ma soprattutto perché la base popolare più autentica, cioè quelli che un tempo si chiamavano i militanti – e ancora orgogliosamente lo sono -, sono incerti e ben poco sedotti dalle tesi “grilline” sulla bontà del taglio alla democrazia rappresentativa.
Per dare un esempio, giorni fa uno studio di Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore prevedeva un vantaggio del No in Toscana del 52 contro 48. E ieri lo stesso analista descriveva una crescente rimonta del No che sul piano nazionale sarebbe adesso oltre il 40 per cento. È chiaro che il problema del vertice del Pd non è guidare un fronte referendario contro l’altro, ma uscire senza troppi danni dalla prova del 20-21 settembre. In ogni caso l’esito sarà grigio e non vedrà protagonista la maggiore forza del centrosinistra. Il pericolo maggiore è quello di lavorare per il re di Prussia, ossia costruire il trono per un monarca esterno e collettivo: i Cinque Stelle e la loro filosofia anti-politica, cosiddetta anti-casta. Il Sì assai riluttante pronunciato da Paolo Gentiloni riassume bene questo malessere. Di fronte al quale il segretario Zingaretti ha messo sul tavolo tre carte.
La prima è un classico che riecheggia i vecchi tempi: chi vota No danneggia il partito e lo indebolisce. Ma in questo caso i dissidenti nel Pd non sono una piccola fazione, rischiano semmai di essere la maggioranza. Di conseguenza l’argomento risulta poco efficace. Ecco allora un appiglio più concreto. È suggerito dall’intervento di Luciano Violante ieri su questo giornale: riproporre il tema delle riforme costituzionali, cominciando dall’assegnare a Camera e Senato funzioni diverse. Zingaretti ha ripreso l’idea, che dovrebbe sfociare quanto meno in una raccolta di firme nei pochi giorni che ci separano dal voto. Peccato che si siano persi mesi preziosi inseguendo un’intesa con i Cinque Stelle che doveva sfociare in una riforma elettorale prima del 20 settembre, mentre invece si è rimasti al punto di partenza o quasi (solo un’ipotesi di legge messa in calendario alla Camera in commissione). Appena un mese fa Goffredo Bettini, ascoltato consigliere del segretario, diceva che “senza legge elettorale il Sì al referendum è pericoloso”.
Adesso anche lui deve accontentarsi di poco o niente.
Quindi affermare che – parole di Zingaretti – “il Sì permette di riaprire la stagione delle riforme” al momento è solo un atto di fede, anziché un programma politico del quale non si sono ancora collocati i primi mattoni.
La terza carta riguarda la distinzione tra referendum ed elezioni regionali, tra il passaggio stretto del doppio voto e la tenuta del governo. Si capisce che il Pd voglia essere il garante della stabilità, al di là dei chiaroscuri nel rapporto con l’astuto Conte, atteso oggi alla festa di Modena. Ma su questo punto le affermazioni della vigilia contano poco. Il 21 settembre si conteranno i voti nelle regioni e anche, non c’è dubbio, si vedranno le percentuali del referendum. Poi si potrà decifrare meglio il futuro. Vero è che Zingaretti ha posto un tema che sembra irrinunciabile, tanto da far pensare a un accordo dietro le quinte su cui sarà interessante ascoltare una parola definitiva dal presidente del Consiglio: accettare al più presto i miliardi del Mes sanitario. È il terreno scelto dal Pd per mandare un messaggio all’Europa, cioè per definirsi come interlocutore credibile dell’Unione. Ma anche per questo si dovranno pesare i voti.