Parole, toni Il neo-volgare dei politici

L’italiano degradato.
Ormai sembra diventata una gara a chi usa il termine più greve, l’insulto più sgradevole, la provocazione più estrema. I ministri parlano in pubblico e lo fanno come fossero al bar, l’aggressività diventa tanto normale da essere inserita persino nei comunicati ufficiali che i loro portavoce trasmettono nelle chat aperte su WhatsApp .
E così la volgarità viene utilizzata sempre più spesso, fino a diventare un tratto caratteristico di questa stagione politica.

Quale fosse il modello di comunicazione si era capito ben presto ascoltando il ministro dell’Interno Matteo Salvini che l’estate scorsa, annunciando un decreto per intervenire in materia di immigrazione, aveva avvisato gli stranieri presenti in Italia che «la pacchia è finita».
Da allora ha sempre duellato con chi osava contraddirlo. Il governo tunisino che non effettua controlli sulle coste e lascia partire i barchini verso Lampedusa «esporta galeotti», gli analisti che criticano la manovra economica sono «sciacalli» e al presidente della commissione europea Jean Claude Juncker che paragona l’Italia alla Grecia risponde: «Parlo solo con le persone sobrie».
È uno stile ed è fin troppo chiaro che anche i ministri 5 Stelle abbiano deciso di accodarsi, forse convinti che questo paghi in termine di consenso. Con il trascorrere delle settimane i toni si sono alzati fino a diventare fragorosi. E allora il titolare delle Infrastrutture Danilo Toninelli definisce «ignorante» chi non apprezza il suo progetto per ricostruire il ponte Morandi di Genova con negozi e ristoranti, senza ammettere poi di aver sbagliato visto che la sua idea copiava quella del ponte Galata di Istanbul e forse lui non sa che quella è un’area pedonale e non un viadotto autostradale.
Era maggio scorso quando Luigi Di Maio attaccava il capo dello Stato Sergio Mattarella chiedendo che fosse messo in stato di accusa perché non accettava come ministro dell’Economia Paolo Savona. Qualche settimana dopo ha ammesso l’errore, ma questo non è evidentemente bastato per convincere tutti ad abbassare i toni. Nemmeno lui. E così capita che nei suoi comunicati il ministro Salvini dica frequentemente «mi fa schifo» e parlando in diretta Facebook dal suo ufficio al Viminale arrivi a usare come intercalare la parola «cazzo», oppure a evocare spesso e volentieri il mussoliniano «me ne frego».
Succede che proprio Salvini e Di Maio si accusino reciprocamente di scorrettezze, salvo poi prendersela con chi «ci porta sfiga». In questo clima persino il sindaco di Milano Giuseppe Sala, sempre misurato, è stato costretto a scusarsi per aver invitato Di Maio (con un’espressione forte) «a chiudere i negozi ad Avellino e non a Milano».
Lui una correzione l’ha fatta. Di Maio invece non solo non si è pentito di aver definito «infimi sciacalli» i giornalisti che hanno raccontato l’inchiesta sulla sindaca Virginia Raggi, ma poi ha avallato la posizione del compagno di partito Alessandro Di Battista che li reputa «puttane», specificando che «quando ce vo, ce vo, non si torna indietro». E il titolare della Giustizia Alfonso Bonafede – che appena una settimana fa ha definito «azzeccagarbugli» gli avvocati schierati contro le nuove norme sulla prescrizione – ha voluto allinearsi chiarendo che «non c’è alcuno scandalo ad usare questi termini».
È un problema di linguaggio, ma non solo. Perché si tratta di ministri e dunque in discussione c’è il ruolo che hanno, l’istituzione che rappresentano. Quando oltrepassano il confine e scadono nell’insulto, ad essere sviliti non sono i bersagli dell’epiteto, ma le funzioni che loro stessi ricoprono. Un esponente del governo non può comportarsi come un cittadino qualunque. La scrivania nella stanza di un dicastero non può essere utilizzata come il tavolino di un bar. Non è una questione di buone maniere, in gioco c’è la credibilità di chi governa questo Paese e dunque dell’Italia. Sarebbe bene tenerlo a mente. Almeno fino alla prossima parolaccia .
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