Ècurioso. Più che di rivalsa femminile, di apogeo della donna, pare un indegno atto di sottomissione, l’ammissione di una sudditanza. Finché le donne “rileggono” i capolavori dei maschi (bianchi, occidentali, diversamente rapaci), pur ribaltandoli, ne celebrano la granitica grandezza, ne sono succubi, da sole, le amazzoni scrittrici, non ballano, in grado, soltanto, di produrre apodittiche appendici, arti artificiali, artificiosi spin off. Restano, sempre, le costole di Adamo, costoro, autrici di romanzi, in partenza, di fatto, inferiori all’originale: perché questo azzardo suicidale? Boh! Insomma, Il silenzio delle ragazze di Pat Barker, che racconta l’Iliade dagli occhi di Briseide, non scalfisce di uno iota il poema omerico; della moglie di Shakespeare – una fissa di Maggie O’Farrell – c’interessa solo perché è la moglie di Shakespeare; allo stesso modo il Feminist retelling of Ninteen Eighty-Four di cui ha detto il “Guardian” (tranquilli, il pezzo è di una donna, Alison Flood) è, appunto, un retelling, un ri-racconto, destinato, come tutti i prodotti derivati, a un più o meno rapido oblio, a restare nell’angolo del gioco, nell’hangar del diletto, di certo non sostituirà l’opera prima che, al contrario, giganteggia, onorata. Eppure, il genere dei romanzi derivati – alla deriva della grande letteratura –, in cui a prendere pieno possesso del palco è una donna, va di moda in UK: Jennifer Thorp ha pubblicato da poco il suo primo libro, Learwife, “dando voce a una donna la cui assenza è un clamoroso enigma”, la moglie di re Lear. Ne dicono un gran bene. Resta il fatto ineluttabile: è la storia della moglie di.
Che mondo triste quello in cui occorre trafugare i grandi romanzi, grandi di per sé, certi – per vezzo totalitario – che in letteratura vincano le norme del genere. Che palle! Se si tratta di giocare, sarebbe più affascinante che una donna entri nella testa di Charles, l’ufficiale sanitario marito di Madame Bovary, che una donna elevi a spregiudicatezza la biografia di Aleksej Vronskij, il seduttore di Anna Karenina. Ci vuole, cioè, sempre, uno scarto, il fenomenale ribaltamento degli sguardi. Il resto, altrimenti, è talmente ovvio che va rubricato nel grigiore.
La vicenda della riscrittura di 1984, in effetti, rischia, da subito, il grottesco. Il romanzo, previsto entro il 2024, s’intitolerà Julia, stampa Granta, la copertina scimmiotta quella della prima edizione di 1984, edita nel 1949 da Secker & Warburg. Lo scriverà – usando gli ingredienti fornitele dalla casa editrice – Sandra Newman, classe 1965, americana, nota per The Heavens (2019; pubblicato come I cieli, in Italia, da Ponte alle Grazie), che ha al centro la vicenda la figura di Emilia Lanier, poetessa inglese di origine italiana, la probabile “Dark Lady” (una di una lista) a cui Shakespeare scrive i sonetti più conturbanti. Ancora una volta, appunto, una donna la cui esistenza si svolge all’ombra di un grande uomo, il Bardo. Ad ogni modo, Sandra Newman, di cui Granta sta per pubblicare l’ultimo romanzo, The Men – storia distopica che predica l’estinzione del genere maschile dal pianeta –, pare brava, leggeremo con piacere Julia, appendice femminista che rimarcherà l’importanza di 1984, romanzo, per altro, di cui si parla in modo inversamente proporzionale alla sua grandezza.
Già, ma perché una versione femminista – o femminile – di 1984? Il romanzo di Orwell non ha bisogno di essere ‘aggiustato’: Winston Smith è il protagonista del libro, ma Julia – giovane, energica, provocante – è il propulsore dell’azione, non è suddita di altro che della propria audacia d’amante. Probabilmente, l’intento remoto di una azione romanzesca nata zoppa è quello di ‘risciacquare’ l’immagine di Orwell. Il tipico gusto inglese di smutandare i miti, infatti, non ha fatto sconti al divo George, da tempo lo scrittore più rappresentativo d’Albione. Da alcune lettere, recentemente ritrovate, vien fuori che Orwell andava dietro a un variabile numero di donne: a una di queste, Brenda Salkeld, solida insegnante di ginnastica, conosciuta a Southwold, nel Suffolk, scriverà per anni, pure da sposato, questi toni:
“È un peccato… non abbiamo mai fatto l’amore come si deve. Avremmo potuto essere felici. Se le cose collasseranno, sarò tentato di vederti. Mi rifiuterai?”.
D’altronde, il matrimonio, non del tutto quieto, con la prima moglie, Eileen Maud O’Shaughnessy – esaltata, in una pubblicazione recente, come Eileen: The Making of George Orwell da Sylvia Topp, saggista, donna –, era inteso da entrambi come un rapporto ‘libero’. Alla luce dell’epistolario orwelliano, nel marzo 2020, su “The Critic”, D.J. Taylor – che ha firmato una importante biografia su Orwell, 2003 – ha impilato una lista di amanti più o meno presunte del divo George, da Jacintha Buddicom, “la fidanzata adolescente con cui andava a raccogliere funghi sulle colline sopra Henley” a Sally McEwan, segretaria del “Tribune”, e Inez Holden. Come si sa, Orwell preferì Sonia Mary Brownell su tutte: nata a Calcutta, assistente di Cyril Connolly, redattrice dell’“Horizon”, donna di maschia bellezza e di implacabile intelligenza, sposò George che era in punto di morte, nell’ottobre del 1949, più giovane di quindici anni. D.J. Taylor ci ricorda che
“quando si trattava di donne, Orwell era un tradizionalista, maschilista, voyeur, uno che non lesinava a provarci quando gli capitava l’occasione”.
Tra l’altro, non si faceva problemi di età: Mabel Fierz, un flirt degli anni Trenta, era sposata, gli diede una mano a trovare editore, “avrebbe potuto essere sua madre”; Dora Georges, invece, a cui dedica una poesia verso la fine degli anni Venti, di anni ne aveva appena 16. D.J. Taylor, talentuoso guardone, sta scrivendo una nuova biografia orwelliana, che terrà conto di tali terremotanti scoperte: è prevista per il 2023.
Eccolo, allora, Orwell: irrimediabilmente maschio, mediamente lascivo, traditore per necessità. Nella figura di Julia, ad esempio, pare siano riassunti i caratteri di Sonia Brownell, ma anche le reminiscenze delle passeggiate con Eleanor Jacques, figlia del dentista di Southwold, frequentata nei primi anni Trenta. Ma che ci frega, in fondo? Un’opera è viva di per sé, priva dei reflui biografici del suo autore. La pubblicazione di Julia, piuttosto, sigilla le profezie di Orwell, espresse in un articolo pubblicato il 19 giugno del 1941 su “Listener”, Letteratura e totalitarismo.
“La letteratura moderna è un prodotto essenzialmente individuale. O è l’espressione veridica di ciò che un uomo pensa e prova oppure non è niente… Tutte le nazioni, una dopo l’altra, stanno adottando un’economia centralizzata che, a seconda dei gusti, possiamo definire socialismo o capitalismo di Stato. In questo modo la libertà economica dell’individuo, e in larga misura anche la sua libertà di fare ciò che vuole, di scegliersi il proprio lavoro, di muoversi in lungo e in largo su tutta la superficie della Terra”.
Da qui all’abolizione del “libertà di pensiero”, in un sistema di governo che “ti impedisce di esprimere – e persino di pensare – determinate idee, ti impone ciò che devi pensare”, tramite persuasione sociale e imposizione morale, il passo è breve. Un romanzo come Julia, insomma, può essere partorito soltanto sotto il sistema descritto in 1984.
“Odio la purezza, odio la bontà! Voglio che la virtù non esista in nessun luogo, e che tutti siano corrotti fino al midollo”, dice, nel luogo nevralgico del romanzo, Winston. E Julia è con lui, “dovrei essere proprio il tipo che fa per te, perché io sono corrotta fino al midollo”. La scena più bella di 1984 è proprio lì, nell’esigenza dell’amore crudo, crudele, nella potenza bestiale dei corpi, sradicati da ogni funzione e da ogni cultura, nel delirio della carne:
“Non il semplice amore per una persona, ma l’istinto animale, il desiderio indifferenziato, nudo e crudo. Era questa la forza che avrebbe mandato il Partito in pezzi”.
Eccolo, il punto. È il corpo a sancire l’abominio di ogni morale, di ogni restrizione politica, ideologica, sociale. La bontà, il bene, il buon gusto sono i campioni del totalitarismo, il campionario utile alla coercizione democratica. Invece, è la mania, l’istinto, la gioia ferina, ciò che non ha argini, a far saltare il sistema che agisce, sempre, ingannando, con le migliori intenzioni, per il bene di tutti. Si fottano, dunque. Per lo meno, fottano. Ciò che ci è tolto, oggi, appunto, è il libero pensiero, la violenza, la provocazione, il corpo. Il corpo. Il corpo bestemmiato a crocevia di virus, la letteratura che assolve un pio esercizio di virtù virtuosistica, burocratica, presa come un anestetico, un vaccino.
Non facciamo più l’amore, ecco il problema.