Nella Toscana di Bertolucci

Addii Le passeggiate a Firenze, gli amici, gli incontri con Monni e Benigni «valletto d’onore». Ricordo di un grande maestro dall’animo gentile. Qui girò «Io ballo da sola» che lanciò Liv Tyler

 

Quando era più giovane, e la malattia che pian piano l’avrebbe consumato non l’aveva ancora aggredito, Bernardo Bertolucci, scomparso ieri a Roma all’età di 77 anni, veniva spesso e volentieri a Firenze. Poteva capitare di incontrarlo nelle vie del centro storico, non ancora distrutto dall’orda divoratrice dei turisti selvaggi. Nonostante fosse un registone celebre in tutto il mondo, Bernardo era molto gentile, si fermava a parlare, non se la prendeva troppo se, come giornalista indisciplinato, avevo fatto qualche piccola scorrettezza. Ad esempio quando conquistò una pioggia di Oscar nel 1988 per L’ultimo imperatore , lavorando a Milano per un settimanale che ora non c’è più (L’Euro peo ), decidemmo insieme al direttore di chiedergli un diario della lavorazione del film e di dedicargli la copertina. L’unico problema era che, per questioni di «chiusura», preparammo il numero quando il verdetto da Hollywood ancora non era ufficiale. Al direttore venne un dubbio sottile e mi chiese: «Sei sicuro che Bertolucci vincerà?». Cosa potevo rispondere; pensavo proprio di sì, ma non ne ero sicuro, non facevo mica parte dei giurati dell’Academy. «Al massino cambieremo il titolo della copertina — aggiunsi imprudente — Invece della “grande vittoria” metteremo “la grande sconfitta”». Il direttore mi guardò storto: «Non dire sciocchezze. Se hai sbagliato previsione cambieremo tutto, e magari ti licenzio per imperizia». Così alle sei di mattina mi trovai in redazione, pronto ad ogni evenienza. Per fortuna il film fu onorato da 9 Oscar (quasi un record) e il direttore non ebbe possibilità di brontolare. C’è un altro dettaglio, che conferma il mite carattere di Bernardo. Rileggendo il suo diario all’alba (il testo l’avevamo raccolto noi in redazione) mi parve un po’ fiacco e aggiunsi qualche nota di colore, in particolare conclusi con una frase ad effetto: « Si, lo confesso, il prigioniero della Città Proibita sono io» che fu ripresa dall’Ansa e altri giornali. Il giorno dopo Bertolucci mi telefonò da Roma, col suo tono cortese: «Caro Claudio, non ho mai detto o scritto niente del genere. Ma funziona, sei stato bravo, complimenti». Un altro avrebbe minacciato querele. Forse è per questo che a Bertolucci volevo molto bene.

Ma seguendo i miei ricordi personali, mi sono allontanato da Firenze. Quando veniva in città Bernardo non andava in albergo, ma preferiva dormire presso dei suoi amici stretti in una villa verso Bellosguardo. E durante il periodo in cui Enzo Siciliano (scrittore a lui vicinissimo anche per il comune legame con Pier Paolo Pasolini) fu attivo presidente del Gabinetto Vieusseux, le visite di Bertolucci furono più frequenti. A Firenze per la verità io avevo conosciuto prima il suo fratello Giuseppe, più giovane di lui, che nella nostra università fece gli studi, e trovò moglie, Lucilla Albano, brillante ricercatrice di cinema. Nei primi anni Settanta Giuseppe era ancora scapolo, e veniva in visita a casa mia, con due brillanti attori allora sconosciuti, Roberto Benigni e Carlo Monni, tutti molto giovani e simpaticissimi. Poi il terzetto si spostò a Roma, Bertolucci junior scrisse per i teatrini off di Trastevere e prossimi dintorni i «Monologhi del Cioni Mario» che furono la base per l’ascesa di Roberto B., insieme al primo film, ruvido e modernissimo, Berlinguer ti voglio bene del 1977, girato sempre da Giuseppe dalle parti di Vergaio. La divagazione su Benigni non è fuori tema. Perché quando il fratellino e i suoi amici toscani andarono nella Capitale, Bernardo, che era già un autore affermato, li aiutò, li invitò spesso nella sua bella casa vicino a Trastevere, li sostenne come potè (a Benigni dette ad esempio una piccola parte da tappezziere pasticcione in La luna , 1979). Trasformò il suo salotto in una sorta di cenacolo amichevole più che intellettuale (ogni tanto ci andavo anch’io) sotto il segno dell’amore per il cinema nel nome dell’adorato Rossellini. Molti anni dopo, nel 2003, come Sindacato Critici insieme al Comune di Fiesole, demmo a Bertolucci, il Premio «Maestri del Cinema». Lui ne fu contento e fu molto disponibile. Andammo due volte a casa sua, io e il direttore della manifestazione Giovanni M. Rissi, per preparare le cose al meglio, non senza una lunga intervista da pubblicare su una speciale monografia. La serata andò bene, con la partecipazione straordinaria di Roberto Benigni, che venne (gratis, quasi in incognito) come «valletto d’onore» per consegnargli il premio. A conferma che la vecchia amicizia non si era mai spenta.

Oltre ai tanti film, la vita di Bernardo trascorre abbastanza serena, non sempre felice. Ci sono i pochi amori importanti (Clare Peploe, moglie affettuosa e autrice a sua volta gli è stata accanto negli ultimi quaranta anni). Ma anche molti amici perduti. Kim Arcalli che era il suo montatore prediletto e collaboratore alle sceneggiature, Enzo Ungari un giovane e brillantissimo critico che meglio di altri studiò il suo cinema; infine il fratello Giuseppe scomparso per un male cattivo nel 2012. All’inizio del decennio ottanta, stancato da un’Italia volgare che non gli piaceva più (La tragedia di un uomo ridicolo ) Bertolucci decide di partire per terre assai lontane e gira la spettacolare «trilogia dell’altrove», formata dal già ricordato L’ultimo imperatore , e poi da Il tè nel deserto e da Il piccolo Buddha . Sfinito dal lungo viaggiare torna in Italia, nella Toscana intorno a Siena, e dirige Io ballo da sola nel1996 . L’ispirazione gli viene dalla vita di un gruppo di artisti che ha scelto di ritirarsi in campagna. Sono lo scultore Matthew Spender, figlio del poeta Stephen, e la sua moglie artista Maro Gorki, anch’essa figlia d’arte. Tenendo presente la loro esperienza Bertolucci costruisce la movimentata compagnia che anima il film. Al centro c’è Lucy, una bella ragazza, la debuttante Liv Tyler, che sogna anche fisicamente il primo amore. Accanto a lei la figura di Jeremy Irons, pensieroso animale morente secondo una definizione cara a Philip Roth. Intorno a loro vive, parla e discute un fantasioso gruppo di intellettuali o artisti. Accanto al veterano Jean Marais e a un inquieto Carlo Cecchi, spicca Stefania Sandrelli, l’attrice viareggina già più volte usata da Bertolucci: era la moglie vanitosa e inconsapevole de Il conformista (1970) e la comunista coraggiosa e intrepida sposa di Olmo Dalcò (Depardieu) in Novecento (1976), forse uno dei suoi ruoli più belli.

A mio parere non tutto funziona in Io ballo da sola . C’è qualche smagliatura nell’intreccio ma la ricorrente immagine di Siena, vista dai campi lontani (sarà che da quelle parti ci sono nato) mi abbaglia e intenerisce il cuore.

 

Fonte: Corriere Fiorentino, https://corrierefiorentino.corriere.it/