PIER LUIGI BERDONDINI
Sangue e silenzio. Il sangue delle vene, intimo, pulsante.
Sangue del sorriso e della rabbia, della mestizia e della speranza. Il silenzio del respiro, profondo, vitale. Silenzio della fantasia e dell’urlo, della musica e del catrame. Sangue e silenzio scorrono nella scultura.
Giuliano Vangi cerca l’uomo tra cellule di marmo, legno, bronzo. Ogni scultura, un pezzo unico. Non ci sono copie. Ogni uomo diverso, ogni scultura diversa. «Non faccio niente di identico, in continua ricerca della identità e l’identità non è statica, è in movimento». Il futuro della scultura? È l’uomo, della disperazione e del cambiamento. Nello studio di Pietrasanta entrano ed escono camion, attrezzati al trasporto di sculture incassate. «Siamo stati in Corea, ora andremo a Viareggio, per la prossima mostra» confidano i trasportatori. Il maestro, sudato e alle otto del mattino, segue e sorveglia con puntiglio e passione. Ogni fase. «La scultura è viva se si libera dalla forma ed entra nell’espressione. È la fatica quotidiana di dare corpo all’ispirazione, che arriva casualmente. È fuoco, e tale deve rimanere. Di fase in fase». Innanzitutto il disegno, per Vangi la scultura è un disegno in tre dimensioni. Chi non sa disegnare, non può fare lo scultore. Nel disegno inizia un viaggio di sentimenti e profili, di sguardi e di destini che saranno il respiro della scultura. Decine di disegni, in varie dimensioni, su diversi tipi di carta, con matite e chine e poi il modello in creta e poi il gesso fino all’attento lavoro alla materia, scegliendo la più adatta a far propria la forza dell’ispirazione. «Continuo a dare voce all’uomo nella scultura. Voce alla diversità e al mutamento». Vuoti, gemme di luce, strettoie, vie di fuga, aria. Attento a ogni dettaglio per far sì che la costruzione rispetti il fuoco dell’idea.
«Lavoro come un operaio, tutti i giorni, tutto il giorno, domenica compresa. Mai cercare l’idea, arriva e le mani si muovono da sole». Per il crocifisso risorto del Duomo di Padova, sulla croce il corpo è vivo, lo scultore ha scelto una lega di bronzo e nichel per dare leggerezza. E per raffigurare correttamente il rapporto tra le dimensioni degli arti e le espressioni del volto ha legato su una croce il modello, un uomo, suo figlio.
Un Cristo vivo, i capelli al vento, il perizoma svolazzante, un corpo dinamico, in un contrasto di luci che aprono allo sguardo, magnetico, pungente, misterioso. Gli occhi in avorio, l’iride in acqua marina e la barba cesellata, tocco tocco espandendo e comprimendo chicchi d’oro sulle guance.
Oggi Vangi è apprezzato in tutto il mondo, ottantasette anni che non si vedono, e che raccontano una storia proiettata al futuro.
Mugellano di Barberino, già bambino muoveva le mani nella creta e cercava di scolpire sui mattoni. Il nonno Paolo a sei anni gli regalò un mazzuolino e un set completo di piccoli scalpelli. Da allora le mani di Giuliano non abbandonarono la scultura.
Iniziò sulla pietra serena che alloggiava in cucina, colpi e sbalzi sul suo primo bassorilievo. «Il Mugello è terra di artisti e queste origini vivono dentro le mie opere.
Mio nonno è il Mugello».
Carbonaio e poi altri mestieri, il nonno nato nel cuore dell’Ottocento, trasmise al bambino e poi all’adolescente Giuliano la forza di credere in sé, nella sua arte. Gli studi a Porta Romana e all’Accademia. Poi otto anni di silenzio. E di sudore. «Dovevo spogliarmi di quanto mi avevano insegnato. Disegnavo notte e giorno e scolpivo, ma non facevo vedere a nessuno le mie opere. Ero alla ricerca.
Mi accorsi che avevo bisogno di uscire. E volai in Brasile».
Un’esperienza che lo porta all’astrattismo, torna in Italia e inizia a dar vita a nuove figure, fortemente espressive. Viveva a Varese e trascorsero altri sette anni di ricerca, senza esporre. Fino al 1966 quando, investendo i pochi risparmi che aveva, commissionò a un fotografo importante, il “Perugi”, una serie di scatti sui suoi lavori. Decise di farli vedere al “Ragghianti” a Palazzo Strozzi. Telefonò alla segretaria che fissò l’incontro.
Entrò nello studio. Vangi racconta che Carlo Ludovico Ragghianti senza neppure guardarlo disse «Cosa vuole?
No per amor di Dio, non voglio veder nulla». Provò a richiedergli di dare un’occhiata. Niente, allora si avviò alla porta. «No, via mi faccia vedere, rapido».
Ragghianti, osservò le foto, cambiò aspetto ed esclamò «Che cose straordinarie, mi scusi. Con tutti questi dilettanti mandati dal vescovo e dai politici, non ne potevo più». Ne uscirono una mostra e un catalogo, dopo 15 anni di isolamento. C’erano sangue e silenzio in quei disegni e c’era il sudore della ricerca. Ci sono oggi, nel naufragio e nell’approdo, tra conflitti interiori e contrasti sociali. In un mondo di ostilità che grida tutto e subito, emergono cuore, genio, impegno. Arte.