Quando la routine morde forte
E le ambizioni sono minime
E lo sdegno cavalca alto
Ma le emozioni non cresceranno.
Siamo sul palco polveroso di un locale minuscolo di Manchester, nel 1979, quando un ragazzo pallido, magro e con gli occhi persi nel vuoto mormora con tono baritonale queste parole sopra un microfono. Love Will Tear Us Apart (L’amore ci spazzerà via) è il titolo della canzone, e Ian Curtis è il ragazzo inquieto che la sta cantando, assieme al suo gruppo, i Joy Division. A dispetto del nome (che a primo acchito potrebbe far pensare ad un gruppetto decisamente pop), i ragazzi di Manchester raccontano, attraverso le sonorità gotiche tipiche del post-punk, le difficoltà di essere membri della classe operaia nell’Inghilterra di Margaret Thatcher. Per i meno abbienti la vita è ripetitiva e scialba, specialmente per i giovani – che si ritrovano perfettamente nei testi di gruppi dark come Cure, Siouxsie and the Banshees e i già citati Joy Division.
14 anni dopo, nel 1993, il pugno di ferro della Iron Lady si è oramai sollevato dal Regno Unito, lasciando però pesanti conseguenze; lo scenario è ancora più aspro di quello della decade precedente. In quell’anno esce nei cinema, dopo 2 premi a Cannes (miglior regia e miglior interpretazione maschile a David Thewlis) un film che di quell’asprezza è impregnato completamente: Naked, di Mike Leigh.
Notte. Un vicolo stretto e sporco di cui possiamo sentire la puzza attraverso lo schermo. Un amplesso sbagliato. Sono queste le prime cose che vediamo inquadrate da una macchina da presa barcollante – e già da questo primo sguardo rimaniamo in confusione, stato che si protrarrà in noi per il resto della visione. Naked non è un film di Ken Loach. Non ha intenzione di raccontare il dramma della società britannica direttamente, ma decide di farlo attraverso un personaggio controverso e difficile da inquadrare, intorno al quale si snodano vicende talvolta non correlate tra loro. Mike Leigh dimostra di essere uno di quei registi (come Paul Thomas Anderson o i fratelli Coen) capaci di scrivere personaggi carismatici nella loro apparente indecifrabilità, che invoglia a riguardare il film per scoprire sempre di più i suoi segreti.
Il protagonista del film è Johnny (David Thewlis) un giovane vagabondo con uno spiccato senso dell’umorismo, una vasta cultura filosofico-letteraria ed un gusto per la provocazione costante (e spesso fastidiosa). A sentirlo parlare Johnny è un giovane prodigio, ma lui non ha nessuna intenzione di costruirsi una vita nel mondo snob della borghesia britannica, né tantomeno di trovarsi un lavoro triste ed uguale a mille altri. Johnny è un ragazzo di periferia, e ne va fiero. Un giovane Accattone pasoliniano, se non fosse che la sua costante curiosità e fame di cultura (Johnny è un avido lettore) non fanno altro che renderlo consapevole del dramma in cui vive e verso cui è impotente. Una consapevolezza, questa, che alimenta in lui una sofferenza esistenziale che si traduce nell’azione cardine del personaggio interpretato da Franco Citti : indugiare in malefatte di ogni tipo, che ciclicamente verranno a chiedere il conto.
Ecco quindi un protagonista con cui empatizziamo per la sua visione anti capitalista e anti-borghese del mondo, per la sua sagacia e il suo atteggiamento da flaneur baudeleriano – ma che allo stesso tempo arriva a colpirci mostrandoci i lati più bassi della sua persona, dovuti a un bisogno di attenzioni ma soprattutto di controllo. Un controllo che manca, inevitabilmente, a tutti i giovani inglesi costretti a vivere di espedienti come lui, tra una pozza di piscio e l’altra, in mezzo alla sporcizia di un paese nel pieno di una crisi nera. In una scena del film, nel bel mezzo di uno dei suoi sproloqui filosofici, Johnny sostiene che l’esistenza del bene sia unicamente necessaria in funzione di quella del male, che risulta sempre e comunque vincitore. Il diavolo vince sempre e Dio perde. E il diavolo, oggi, è il denaro. Così dice lui. Una visione forse un po’ manichea (che strizza l’occhio a Socrate), ma possiamo davvero biasimarlo?
Il film ci mostra, infatti, anche chi è ad avere quel controllo che a Johnny manca. Un personaggio che può essere chi vuole e fare quello che vuole. Johnny non si cura e non si lava, l’altro è ossessionato dalla cura del proprio corpo. Johnny ha lineamenti marcati, l’altro ha un profilo statuario. Johnny rivendica il fatto di non essere mai annoiato grazie al suo vivere fuori dai ritmi della società, l’altro ha come unico motore delle proprie azioni la noia. Si parla di dicotomie, e se da un lato abbiamo Johnny, povero in canna, non sarà difficile dedurre l’estrazione sociale di questa sorta di antagonista, che rimanda al Patrick Bateman di American Psycho, yuppie insolente, mutaforma ed umanamente insignificante. Il collegamento è inevitabile. A molti spettatori appassionati di quei film trainati da flussi di coscienza strambi e affascinanti (Trainspotting), sognanti e surreali (un qualsiasi film di Godard) o semplicemente deliranti (Il Ladro di Orchidee), questo film strizzerà l’occhio a metà, aggiungendo sempre una nota dissonante che caratterizzerà l’unicità di questo racconto così sporco e disgustoso da lasciarci con un nodo molto difficile da sbrogliare in gola.
La fotografia sempre presa di peso da un noir anni ’60, tanto che spesso ci si potrebbe aspettare una svolta thriller: forti contrasti cromatici e luci che tagliano una notte pesante come un macigno amplificano il senso di pericolo che circonda Johnny – che è reso perfetto da una regia spesso appena percettibile da quanto è raffinata: Leigh tiene la macchina da presa ferma il più possibile, i pochi movimenti che compie sono sempre ben motivati e si incollano perfettamente a quelli dei personaggi, dando un senso teatrale alla scena.
Naked. Nudo. Nudi. I pochi nudi mostrati dal film sono tutt’altro che sensuali, e questo dice tutto. Perché ad essere nudo qui non è qualcosa di materiale, ma un’atmosfera : quella decadente di un paese rovinato dal capitalismo avanzato, che produce piccoli e grandi mostri che strisciano nelle metropoli fumose e puzzolenti in cui spesso andiamo a vivere per un unico scopo: lavorare.