«Nemmeno quando amministratore delegato era Morelli, e dovette intervenire lo Stato, si respirava un’aria così pesante. Ma qui o ci si salva tutti insieme o non si salva nessuno». Le parole di uno dei 21mila addetti superstiti del Monte dei Paschi rendono l’idea del clima che accompagna lo sciopero odierno in quella che era la terza banca italiana. Un’agitazione che arriva dopo sei lunghi anni dalla precedente, dopo assemblee partecipatissime, e che sarà accompagnata da presidi (contingentati) di protesta a Milano, quartier generale di Unicredit; a Bari, sede del Mediocredito Centrale interessato alle filiali Mps nel meridione; e a Roma sotto il Mef, visto che il Tesoro detiene il 64% di Rocca Salimbeni. Quanto a Siena, «per evitare strumentalizzazioni a fini elettorali» la protesta sarà più simbolica «e a titolo generale».
PER DARE UN’IDEA dell’esasperazione dei bancari Mps basta un dato di fatto, denunciato da tutte le più importanti sigle del settore del credito: «A cinque mesi dalla prima richiesta di incontro, il ministero del Tesoro e il governo nel suo insieme non hanno avuto il buon gusto di informare i rappresentanti dei lavoratori sui processi in atto». Processi che hanno dovuto leggere sui giornali o ascoltare in tv. A partire dalla decisione del governo Draghi di avviare in esclusiva una trattativa con Unicredit per cedere le quote societarie pubbliche entro fine anno, così come da impegni presi con Bruxelles nel 2017. Quando, per evitare il crack dell’istituto di credito, che avrebbe provocato scosse telluriche pericolose per la stessa stabilità del sistema finanziario continentale (e non solo), l’Ue dette il via libera all’entrata del Tesoro italiano.
Ma dopo quattro anni, «i ripetuti errori dei management succedutesi alla guida di Mps – come rileva Nino Baseotto che guida la Fisac Cgil – e di cui i dipendenti non hanno responsabilità», hanno continuato a rendere patologico lo stato di salute della banca. «Ma i lavoratori e il sindacato non possono accettare che tutto si decida senza essere ascoltati – aggiunge Baseotto – senza poter fare le proprie proposte e far valere le proprie ragioni».
ANCHE SE IL MINISTRO Franco, titolare del Mef, a inizio agosto aveva fatto sapere che «non vi sono al momento indicazioni che facciano intravedere rischi di smembramento della banca», assicurando «la massima attenzione alla tutela dei lavoratori e del marchio», la lunghissima due diligence avviata da Unicredit non lascia certo tranquilli. Anche perché, dopo la chiusura di tante filiali, gli attuali vertici Mps ne hanno chiuse altre 50 in questi giorni. «Che senso ha – si chiedono lavoratori e sindacati – anticipare alla vigilia di una possibile acquisizione la chiusura di altri sportelli? È forse un’iniziativa su commissione?».
PER CERTO IL COLOSSO guidato da Andrà Orcel sta trattando tenendo il coltello per il manico. «L’operazione annunciata da Unicredit – insiste così la Fisac di Siena – limitata a parti di Mps (le più profittevoli, ndr) porta con sé il rischio di destrutturazione del gruppo, con un incerto destino delle società di scopo, l’allontanamento delle direzioni dai territori, con conseguenze inevitabili in termini di migliaia di esuberi, e ulteriore rischio di una Toscana che si trasformi in terra di raccolta dei risparmi per impieghi da realizzare altrove». Il tutto chiedendo per giunta, come ha denunciato il segretario toscano dei bancari Cgil, Daniele Quiriconi, «enormi risorse pubbliche». Ancor più dei 5 miliardi dei contribuenti ottenuti all’epoca da Intesa Sanpaolo dopo aver acquistato, a un euro, le due banche venete in stato comatoso.