Messe e sicurezza: perché hanno torto gli integralisti da crociata

 

 

Siena – Il Dpcm del 26 aprile che ha oggetto le misure da attuare nella cosiddetta fase 2 finalizzata a impedire l’espandersi della pandemia merita precisazioni e approfondimenti. I passaggi che concernono le forme consentite per assicurare, nei limiti che la situazione impone, la libertà religiosa è tra quelli che hanno attirato più critiche: non tutte infondate ma esasperate oltre misura.

Ad esempio in Francia, tranne i funerali, le cerimonie religiose che raggruppano più persone non sono ammesse prima del 2 giugno: dopo quella data – ma se le condizioni saranno favorevoli – si riprenderanno le pratiche cultuali osservate dalle varie religioni. In un primo tempo da parte della Chiesa cattolica si è, in Italia, giustamente accettato quanto disposto dal governo.

Ora, in un delicato periodo non privo di gravi incertezze, si avanzano da parte della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) con toni duri enfatizzate riserve. Il pontefice nell’omelia della Messa officiata a Santa Marta il 28 aprile ha invocato semplicemente «la grazia delle prudenza e della obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni». Parole sagge e umili, ispirate ad un principio chiarissimo. Non è in ballo il rispetto della libertà religiosa, ma le modalità di culto in pubblico e in luoghi chiusi durante un’acuta fase di emergenza.

Le  provvisorie limitazioni prescritte hanno lo scopo la salvaguardia della salute corporea, un bene comune che in una società pluralista tocca allo Stato proteggere e rendere effettivo tramite il governo per tutti i cittadini, a qualsiasi credenza appartengano. L’apertura dei luoghi di culto «è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto – dice il Dpcm – delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai  frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro».

Ineccepibile dizione. Quanto alle «cerimonie civili e religiose» sono sospese proprio perché sembra difficile che possano svolgersi dignitosamente e in sicurezza in riferimento ai criteri fissati. Lamentarsi perché si è scritto di «cerimonie» è soffermarsi su un dettaglio linguistico. Si sa bene in che cosa consista la Messa per un cattolico, ma da un punto di vista laico, cioè in un’ottica non esclusivamente incentrata sulle tradizioni in uso nella Chiesa cattolica, la parola cerimonia è adeguata perché copre le varietà di prassi consacrate in altre religioni.

Il complesso di questioni inerente questo ambito di delicate tematiche avrebbe meritato una trattazione separata e autonoma. L’interrogativo più banale da porsi relativamente alla Messa da realizzare in presenza diretta di devoti è allora questo: a chi spetta far osservare le disposizioni elaborate ed eventualmente da precisare più accuratamente? Ne ho parecchio discusso con un domenicano amico e schematizzo così accettabili conclusioni. Non va dimenticato un passo (al n. 76) tra gli altri della Gaudium et spes già ricordato: «La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo».

Circa i limiti della libertà religiosa richiamerei pure i nn. 7 e 8 della Dignitatis humanae: «Il diritto alla libertà in materia religiosa viene esercitato nella società umana; di conseguenza il suo esercizio è regolato da alcune norme. Nell’esercizio di ogni libertà si deve osservare il principio morale della responsabilità personale e sociale: nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune. Con tutti si è tenuti ad agire secondo giustizia ed umanità. […] La libertà religiosa, quindi, deve pure essere ordinata e contribuire a che gli esseri umani adempiano con maggiore responsabilità i loro doveri nella vita sociale».

Basterebbero queste due citazioni (brevi di necessità) per individuare l’agenda da affinare e completare, sulla falsariga del decreto legge n. 19 del 25 marzo. Occorre per evitare equivoci pervenire a concordati – l’aggettivo non è scelto a caso – protocolli di intesa reciproca. Una libertà costituzionale non è assoluta, non è svincolata da un quadro generale e da situazioni date.

«L’auspicio – per dirla con il mio interlocutore – è che si arrivi quanto prima ad un protocollo concordato tra governo italiano e Conferenza episcopale italiana: in modo particolare è necessario che si stabiliscano  i requisiti di sicurezza da parte del governo e dei suoi esperti, lasciando ai vescovi ed ai loro sacerdoti il come realizzarli responsabilmente. Senso di responsabilità è richiesto al direttore sanitario, ad un dirigente d’azienda, ad un gestore di negozio. Non si capisce perché non dovrebbe esser richiesto ad un vescovo od un parroco. Lasciando ai prefetti, sulla scorta dell’art. 9 del Dpcm [varato anche sulla base di uno strumento costituzionale quale il ricordato decreto legge], il controllo della realizzazione delle misure concordate e il diritto di intervenire in caso contrario».

Miopi prospettive di rivendicazione, o di supponenza o di protagonismo non aiutano, e tanto meno l’incitamento a eversive disobbedienze. Inutile nasconderselo: chi agita la bandiera della Messa a ogni costo lo fa il più delle volte per contestare la linea seguita (di malavoglia) fin qui e usa il disagio per far divampare polemiche contro papa Francesco e l’area – ahimè – minoritaria del cattolicesimo italico.

Sarebbe preferibile che i difensori accaniti della fede ritualizzata rifiutassero di elogiare chi predica odio ammantandosi di simboli cristiani o meditassero sul perché le chiese son semivuote, o così poco frequentate, quando non corre zolfo di pandemia.

E potrebbero domandarsi anche se i gesti di un evento arrangiato siano più autentici di una partecipazione in spirito, fedele al proprio credo e solidale con tutte le persone. Ora si sta pensando di celebrare Messe all’aperto: e può essere una via d’uscita. Ma non accontenterà gli integralisti da crociata. I quali non avvertono alcun repellente brivido nel trovarsi in compagnia di tanti che pretendono di riaprire tutto e subito sfidando i rischi di una seconda ondata solo per egoistici guadagni.

Per arginare il virus e cominciare a rifondare un’economia su basi in parte diverse è più utile contribuire a creare condizioni che diluiscano i rischi di una probabile seconda ondata o dare via libera a speculazioni e affarismi senza discriminanti modulazioni regionali suffragate da scientifici parametri e rigorosi controlli preventivi? I pareri scientifici sono da buttar nel cestino? Non sarebbe più consono alla missione della Chiesa smarcarsi dai mugugni (comprensibilissimi) di chi guarda solo agli incassi? Sono queste le domande che dovrebbero assillare chi ama il prossimo suo come se stesso.

Roberto Barzanti