Le battute chiamano l’applauso e in politica servono anche quelle. Ma la battutaccia di Giorgia Meloni, «Speranza e Di Maio sono ministri e il problema di una classe dirigente ce l’avremmo noi?», non risolve il suddetto problema, lo scoglio che la leader del primo partito della destra e forse del Paese deve superare se vuole che il suo progetto non rimanga un sogno. L’obiettivo lo indica lei stessa, di fronte ai 4600 delegati convenuti a Milano per la Convention programmatica dei Fratelli d’Italia: «Oggi il campo del reale è dei conservatori, questo è il nostro tempo».
Un Partito Conservatore, un Great New Party, qualcosa di simile al Partito repubblicano negli Usa o ai Tories nel Regno Unito, qualcosa che in Italia non c’è mai stato ma anche qualcosa di molto diverso dal partito neomissino che ancora è FdI. Ma per questo ci vogliono personale politico adeguato e un’area sociale e culturale di riferimento al livello di tanta ambizione. A sorella Giorgia mancano sia l’uno che l’altra. La sfida lanciata ieri a Milano è tutta qui.
IL DISCORSO D’APERTURA è abile. La leader mira a scrollarsi di dosso le ombre di un sovranismo in picchiata riapplicando in realtà la stessa ricetta, però all’intera Europa. «Noi siamo più europeisti di tanti Soloni di Bruxelles», tuona. Ma Europa vuol dire esercito, politica estera comune, indipendenza energetica. Se ci si fa difendere dagli Usa la sottomissione è inevitabile «mentre noi vogliamo essere alleati e non sudditi, per questo chiediamo che la Nato abbia una colonna americana e una europea con pari dignità». Europeisti, atlantisti, schierati senza esitazioni a fianco dell’Ucraina perché se capitolasse «sarebbe la vittoria non tanto della Russia quanto della Cina», ma senza dimenticare gli interessi tricolori: «Non faremo i muli da soma dell’Occidente. In questa crisi c’è chi paga di più e chi potrà guadagnarci: chiediamo un fondo di compensazione al quale partecipi l’intero occidente e chiediamo a Draghi di andare in Europa per rivedere il Pnrr in modo da intervenire sugli effetti della crisi».
IL REPERTORIO DEL PARTITO tricolore viene sciorinato tutto: il presidenzialismo, l’Occidente che ha svenduto i suoi valori, i clandestini «che stanno in Europa senza averne il diritto», il vessillo della coerenza contro una classe politica «disposta a cambiare bandiera e governi pur di salvare se stessa». Ma è più significativo quel che nel lungo discorso invece manca: qualsiasi riferimento agli alleati, alla coalizione, al centrodestra. Si può scommettere che la presidentissima ne parlerà in chiusura ma la decisione di non citare l’alleanza ieri è significativa. La partita di FdI è solitaria. La coalizione forse ci sarà e forse no. Può essere che resista anche dopo la chiusura delle urne nelle prossime politiche ma non è detto e si sa che Giorgia ci crede poco. Ma l’importante non è l’alleanza, è il partito che «continuerà a salire ma tenendo i piedi ben piantati per terra».
GIÀ, IL PARTITO. La nota dolente è quella. La scelta di tenere la Convention a Milano invece che nella roccaforte romana ha un doppio significato: è una sfida all’egemonia che da sempre esercita nel nord l’asse Lega-Fi ed è anche l’annuncio di un’offensiva per conquistare i «ceti produttivi» che sinora si sono sempre tenuti lontani da un partito considerato e non a torto centralista e statalista, come da eredità del vecchio Msi. Sovvertire quell’impianto ideologico e ampliare i ranghi di un personale politico che non va oltre i limiti di un piccolo partito neomissino è precondizione necessaria per sperare di farcela. Ma è anche la scommessa più difficile.
Il primo passo è ampliare il bacino politico-culturale di riferimento. Il vero scopo del raduno milanese è proprio questo: Marcello Pera, Paolo Del Debbio, Giulio Tremonti, Luca Ricolfi non sono solo fiori all’occhiello. Almeno nelle intenzioni della presidente sono il seme che dovrebbe trasformare la cultura politica di FdI per farne una forza liberale e liberista, affidabile e non solo in Italia. Ma il nodo del personale politico resta inevaso e non è un caso se la battuta del giorno in platea era ovunque la stessa: «Ci vorrebbero dieci Crosetto». Magari anche di più.