«In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse».
Luca Ricolfi, “la Repubblica”, 31 ottobre 2021
Questa è una delle considerazioni di carattere storico contenute nel primo editoriale che il sociologo Luca Ricolfi, fresco collaboratore del quotidiano “la Repubblica”, ha piazzato come una mina sotto i temi controversi della correttezza politica, delle lotte per i diritti di genere e delle minoranze, e di altre questioni che da sempre sono care alla tradizione del giornale romano. Il subbuglio suscitato nelle aree intellettuali “sinistrorse”, a cominciare da quella interna, è stato notevole: fra le reazioni acide e scomposte all’editoriale si segnalano lo sprezzo velenoso di Gad Lerner (lo immaginiamo mentre agita i pugni, rischiando di perdere il Rolex) e il tweet da antologia di Michela Murgia, mentre l’articolo in risposta su Repubblica della “consociata” Chiara Valerio – tanto precipitoso quanto fumoso e inutile – ha cercato di razionalizzare la questione, mostrando il volto rassicurante di quella repressione di stampo neo-femminista che da qualche tempo si sta cercando di attuare. Molto si è detto e ironizzato in questi giorni sul “piccolo terremoto” provocato da questo esordio, per cui preferiamo sorvolare sulle considerazioni spicce e analizzare la questione in modo più mirato, focalizzando le devianze che sono emerse. Così inizia l’editoriale di Luca Ricolfi:
«Quando, esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio. Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio».
Da qui si è creato «un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare». Col tempo, in evoluzioni successive, «il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica». Di fatto ha subìto mutazioni progressive: Ricolfi ne individua cinque, che sintetizziamo.
La prima mutazione: l’arrivo di internet e la creazione dello spazio pubblico dei social, «dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, (…) perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali». La seconda: «l’espansione della dottrina del “misgendering”», ovvero «chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto». La terza mutazione porta alla cosiddetta cancel culture, di cui molto si sta parlando e che è superfluo spiegare. La quarta mutazione cambia marcia, e spinge alla «discriminazione nei confronti dei non allineati. Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante». E infine si arriva alla quinta mutazione: la cosiddetta identity politics:
«Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per parlare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di “appropriazione culturale”».
Ecco, fin qui possiamo dire che la ricostruzione di Ricolfi (che invitiamo a leggere integralmente) appare ineccepibile, salvo precisazioni o disaccordi di metodo, tutti da valutare. Sta di fatto che l’assalto più brutale al sociologo è arrivato subito da Michela Murgia, che con la solita aggressività tronfia e maleducata – tutta funzionale a ottenere risonanza sui media – ha sentenziato via twitter:
«Leggo Ricolfi e non posso fare a meno di pensare che il clitoride ha 8000 terminazioni nervose, ma ancora non è sensibile quanto un editorialista italiano maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio».
Un vero attacco da bulla della rete, fedele ai suoi metodi, che stavolta si è risolto – purtroppo per lei – in una doppia zappata sui piedi. La prima: tutti sanno, o dovrebbero sapere, che il sostantivo clitoride è femminile: la clitoride. È vero che, specialmente nell’ultimo secolo, nell’uso è andata prevalendo la declinazione al maschile, ma questo non significa che il termine sia diventato maschile: esso è rimasto e rimarrà femminile. Quindi, paradossalmente, la leader più ingombrante della lotta contro i dannati maschi-italiani-bianchi-eterosessuali, l’agitatrice che di questa lotta fa bandiera trasformandola in fonte di guadagno e di prestigio e strumento di prevaricazione, colei che pretende di neutralizzare i termini maschili con l’imposizione di una neo-lingua senza senso che favorisca la sfera femminile e transgender, ecco, questa persona cosa fa? Salita sul pulpito per colpire l’avversario, prende una parola femminile, che pertiene alla sessualità femminile, e la volge al maschile in maniera plateale, senza fare una piega. Uno svarione inaccettabile, che a qualunque attivista oltranzista costerebbe l’ignominia con messa in punizione, mentre a Michela Murgia fa un baffo, ovviamente, perché “il capo” non si può mettere in discussione.
La seconda zappata: se Luca Ricolfi ha una sensibilità superiore a quella della gloriosa clitoride, allora quanto può misurare la sensibilità di una “Maschia Italiana Bianca Eterosessuale” (il perché lo scopriamo dopo) come Michela Murgia? Di una leader che istruisce tribunali speciali nelle radio, che gode di ospitate televisive continue, che ha imperversato nella tv di Stato facendo addirittura stroncature letterarie, facoltà mai concessa ad alcuno e che mai verrà concessa perché è una materia ritenuta tabù; che lavora per il Gruppo Gedi (ovvero Fiat) con un ruolo primario, che gode del privilegio di avere i propri libri promossi in modo permanente dai giornali dello stesso Gruppo che le dà lo stipendio, e beneficia di una visibilità totale, assoluta e indiscutibile? In pratica, quanto può essere sensibile la scrittrice italiana più privilegiata di tutti i tempi se vede minacciata la sua montagna di privilegi che non ha eguali? Quante clitoridi bisognerebbe mettere insieme per misurarlo?
E ora vi diciamo perché Michela Murgia, secondo quanto spiega la sua amica e collega Chiara Valerio, rientra nella categoria dell’Editorialista Italiano Maschio Bianco Eterosessuale attribuita a Luca Ricolfi. All’indomani dell’editoriale del sociologo, Chiara Valerio ha improvvisato una replica su Repubblica (il tempo corre e bisogna fare presto): un articolo fiacco e inconcludente, oscuro in più punti, i cui unici passi evidenti – addirittura illuminanti – sono tre, dove l’autrice si tira pure lei tre belle zappate sui piedi. Vediamo la prima:
«Vorrei sottolineare subito che la categoria di maschio bianco eterosessuale è stata fino a oggi una non-categoria nella misura in cui è stata presentata come la norma. Dal punto di vista insiemistico la descrizione è “maschio bianco eterosessuale” uguale “U – Insieme Universo” nel quale sono contenuti, intersecantisi o meno, altri sottoinsiemi, con etichette varie».
Questa è l’introduzione, in cui Valerio – che più avanti dice «vengo dalla matematica e da Wittgenstein» – comincia a spargere fumo dichiarando di applicare la teoria degli insiemi a una questione che non è matematica ma è sociologica, come se la cosa potesse funzionare. «L’insiemistica è l’unica matematica che applichiamo giorno per giorno. Siamo abituati a raggruppare persone molto diverse sotto una sola delle loro caratteristiche, quella che riteniamo preponderante, o evidente, o che, nel peggiore dei casi, riteniamo uno stigma. Non siamo razzisti, omofobi o misogini, siamo insiemisti». E qui arriva la prima grossa zappata:
«lentamente e tutti insieme ci stiamo accorgendo che l’universo non coincide col maschio bianco eterosessuale. Va detto che per sentirsi appartenenti alla non-categoria del maschio bianco eterosessuale non è necessario essere bianchi, maschi o eterosessuali ma solo occupare una posizione tale da non dover mai contrattare le risorse e, tra le risorse, il tempo».
Santo cielo, ma questa è una rivoluzione: per appartenere alla categoria maledetta del MBE non è necessario né essere maschi, né essere bianchi, né essere eterosessuali, basta stare bene economicamente, avere dei privilegi, essere dalla parte conveniente della barricata, lasciando dall’altra i poveracci. Quindi, paradossalmente anche la consociata Michela Murgia è maschia-bianca-eterosessuale, e come lei la stessa Chiara Valerio: che fegato riuscire ad ammetterlo! Finalmente! Ma ora proseguiamo, che arriva la seconda mazzata sui piedi:
«È importante svelare la natura insiemistica del nostro pensiero perché altrimenti articoli come quello di Ricolfi sembrano pezzi nel merito del politically correct e della cancel culture quando, invece, sono pezzi di metodo. Ed è un metodo di esclusione perché è esposto e analizzato indipendentemente dal contesto nel quale si colloca. Non si tratta di rivolgere una battuta spinta alla propria compagna o al proprio compagno mentre si sta stesi sul letto a decidere se cucinare o sfruttare il privilegio capitalistico che ci ha messi nella parte del mondo che ordina delivery e non tra coloro che lo consegnano, ma di non farlo per strada, durante una riunione, sul luogo di lavoro, su un social. Si tratta di scegliere volta per volta, secondo il contesto, un linguaggio, anzi un tono della lingua».
Dunque, nonostante la prosa involuta, il concetto sembra chiaro: bisogna scegliere ogni volta il linguaggio adatto al contesto in cui ci si trova. Certe cose non si devono dire in pubblico, che sia per strada o in una riunione o sul lavoro o nei social, se il contesto è sbagliato: quelle cose bisogna dirle quando si è protetti dalle mura domestiche, è solo lì che si può «rivolgere una battuta spinta alla propria compagna o al proprio compagno mentre si sta stesi sul letto». Proprio come accadeva durante il fascismo, dove in luoghi pubblici e in presenza di altre persone non si poteva “parlare di politica”, perché era pericoloso, e per farlo ci si doveva rifugiare nelle case, in luoghi protetti, al riparo da orecchie indiscrete. Qui si propone la stessa cosa, ma portando avanti «battaglie e simboli per rendere il linguaggio più inclusivo, che significa poi, semplicemente, battersi perché il linguaggio sia adeguato al contesto. Che significa ancora non presupporre un contesto-universo unico». Riepilogando: ci vogliono imporre un nuovo linguaggio artificiale con simboli inclusivi, di stampo fascista (ricordate quando si ri-contavano gli anni coi numeri romani?), nascondendo l’intento di renderlo universale con la rassicurazione di «non presupporre un contesto-universo unico». Che dite, vogliamo provare? Proviamo ad adottare la loro assurda grammatica e a lasciarcela imporre, poi vediamo: davvero pensate che col tempo chi continuerà a usare il linguaggio tradizionale, perché a sé più consono, non verrà discriminato, boicottato, ostracizzato, e infine annullato? Noi non ci facciamo prendere per il culo, questo è certo, soprattutto da gente come questa.
L’articolo di Chiara Valerio prosegue spargendo fumo, accennando vagamente a lemmi, simboli strutturati, calcolatori numerici e macchine in generale, codici fisici, meme. Poi cita Carlo Ginzburg, senza nemmeno capire perché, fino ad avvitarsi in passi incomprensibili come questo:
«Dove sta chi parla è una domanda alla quale chi studia storia è avvezzo e alla quale è abituato pure chi ha studiato matematica o linguistica o semiotica e nella quale esercitarci per smantellare l’attitudine insiemistica che ormai senza più consolarci, ci affligge».
Ci avete capito qualcosa? Noi ci siamo scervellati su questa frase, senza venirne a capo. Ma alla fine arriva il gran colpo: dopo aver rievocato il “palmo napoletano”, l’unità di misura vigente nel Regno delle Due Sicilie che sarebbe stata soppiantata dal sistema metrico (ovvia allusione all’innovativa neo-lingua), Chiara Valerio conclude – e si tradisce con la terza mazzata sui piedi:
«Il potere tende a conservare sé stesso, i suoi metodi, i suoi linguaggi. Le etichette, anche quelle che dicono bella e brava, giusto e buono, corretto e intelligente, sono briciole. La rivoluzione comincia quando si rinuncia alle briciole. Rinunciare alle briciole non significa volere la pagnotta, significa rinunciare alle briciole».
Ecco la grande falsità, rivelata dall’excusatio non petita: qui «rinunciare alle briciole» significa esattamente volere tutta la pagnotta, pretenderla tutta quanta. Troppi segnali lo indicano. E sappiamo bene perché quasi nessuna attivista ammette quali sono le mire reali di questa “rivoluzione”: perché nessuna delle neo-femministe ufficiali – quelle che godono dei privilegi di stare nei media, nelle case editrici, nei festival e negli eventi seguiti da tante persone – può rischiare di screditarsi dicendo come stanno le cose, mentre sono quelle meno in vista e meno scaltre che possono svelare di più. A titolo di esempio, riportiamo una serie di affermazioni di principio – quasi un manifesto – enunciate da una giovane pubblicista attiva in rete, legata al murgismo e al femminismo massimalista, che ha scritto su testate online ed è seguita anche da persone di normale intelligenza: si tratta di commenti in una discussione su facebook, quindi in una situazione confidenziale, che rivelano la vera faccia di questo pensiero. Commenti che sono stati presto cancellati dal sistema di controllo del social, proprio perché improntati allo hate speech, ma che noi conserviamo in copia, documentabile in qualsiasi momento.
«I maschi sono invadenti, molesti e prepotenti sia da singoli sia da associati. Hanno/avete una tara evolutiva per me insuperabile, che è dovervi far scegliere a tutti i costi. Onestamente io penso sia impossibile cambiare il vostro modo di essere. I maschi della specie umana hanno una sola cosa che potrebbero fare, utile: riconoscere che sono/siete profondamente tarati e consentire alle donne di accedere al potere in modo da arginare le vostre tare. Che è esattamente ciò che facevano gli uomini primitivi, molto più consapevoli di quelli contemporanei delle loro pulsioni distruttive, accettavano di buon grado e rispettavano in modo fedele il sistema dei tabù messo in piedi dalle donne per evitare che le loro tare violente e competitive diventassero un pericolo per l’umanità».
Avete seguito? Gli uomini primitivi – molto più consapevoli – accettavano di buon grado – rispettavano in modo fedele – il sistema messo in piedi dalle donne. Tutto chiaro? Questo è il delirio più preoccupante che ci è capitato di leggere, sugli “uomini primitivi” che sarebbero stati consapevoli, fedeli, sottomessi: qui si possono vedere in modo plastico, senza filtri, i veri intenti di chi vuole imporre nuovi condizionamenti e nuove oppressioni, come se non ne avessimo a sufficienza, anche attraverso l’invenzione di una lingua artificiale.
In coda, vogliamo concludere con una considerazione che il professor Simone Pollo dell’Università di Roma La Sapienza, già nostro ospite poco tempo fa, ha espresso recentemente nel suo spazio social:
«Quando si esamina il dibattito su questioni come l’intersezionalità, lo schwa, la cancel culture ecc. (ma è solo un esempio e la nota vale per qualsiasi tema “caldo” nel dibattito pubblico) non bisogna mai dimenticare un fatto. Il fatto è che in quel dibattito, oltre alle grandi questioni di principio, si giocano sottotraccia anche carriere accademiche e/o politiche, visibilità nel sistema culturale, contratti per scrivere libri, collaborazioni con quotidiani, inviti a festival ed eventi culturali vari, interviste nei vari mezzi di informazione eccetera».
Come dicevamo, appunto.