Martino V torna a Roma: devastazione

Domani 28 settembre chi ha buona memoria potrà festeggiare il seicentesimo anniversario dell’arrivo a Roma del primo Papa che tornava a regnare nell’Urbe dopo la fine dello Scisma d’Occidente. Ci riferiamo a Martino V, Oddone Colonna, membro di una delle più antiche famiglie romane che era stato eletto in pieno esilio avignonese l’11 novembre del 1417, in uno dei momenti più tragici della storia della Chiesa.
Ci vollero, però, tre anni per il suo arrivo nella città natale. Entrò in Roma il 28 settembre 1420 da porta del Popolo, come da secoli era usuale fare, ma dormì quella sera nella chiesa che dominava l’omonima piazza, per trasferirsi la mattina seguente nel Palazzo Vaticano. A quanto pare il popolo lo aspettava nel giubilo con cui si accoglie un liberatore.
Vorrei qui evocare la visione un po’ romantica e molto ottocentesca con cui descrive ciò che il Papa vide appena giunto in città il famoso Ludovico von Pastor (1854 -1928) nel primo volume della sua monumentale Storia dei Papi.
Martino V trovò la Città Eterna in pace, ma in tale miseria che a mala pena aveva l’aspetto di una città. Anche von Pastor impiega bene, come fanno molti storici, non poche citazioni, a cominciare dalla famosa vita del Papa redatta dal Muratori. Spesso succede che si arrivi a Roma per la prima volta con in mente la descrizione fatta da qualcun altro. Così è accaduto anche a me quando nel 1958 andai a Roma se non per la prima, per la seconda volta: «Ah, my dear boy! When I came to Rome in 1885, Rome was not what you are going to see next week! At sunset the Piazza del Popolo was full of sheep taken by simple sheperds… a great silence… allmost dark». Forse non mi si crederà, ma io avevo 22 anni e Bernard Berenson che mi parlava ne aveva 93. Tutto si trasmette e il passato appare sempre più romantico del presente.
Riprendo infedelmente quanto scrive von Pastor. La capitale del mondo era diventata una rovina e presentava una vita oltremodo triste: da qualunque parte si guardasse apparivano decadenza, ruderi, indigenza. La guerra, la fame e le malattie avevano decimato e ridotto all’estrema miseria gli abitanti. Dei ladroni compivano giorno e notte il loro mestiere nelle luride strade dominate dalle alte torri delle grandi famiglie. Ovunque mucchi di rovine coperti di erba alta. Nelle parti più basse della città si erano formate delle paludi che sprigionavano velenosi miasmi. Molti dei monumenti sopravvissuti alla calamità del periodo avignonese erano rovinati e servivano da pascoli per cavalli e capre mentre nel Foro pascolavano le vacche, per quello appunto si chiamava Campo Vaccino. Si era infierito soprattutto contro i resti del passato, al punto che non v’era più in piedi quasi alcuna opera di scultura antica che non fosse stata ridotta per farne scale, soglie di casa, pietre per muri, mangiatoie per animali. Le più fortunate erano le statue, i frammenti, i fregi ornamentali giacenti nascosti sotto le macerie e gli sterpi. Con pari mancanza di riguardo gli abitanti sfruttavano di continuo gli antichi monumenti alla stregua di inesauribili miniere di materiale edile o addirittura per farne calce.
Al principio del Quattrocento Poggio Bracciolini scrive di aver visto, quasi intatto, il Tempio di Saturno: più tardi egli ne ricordava soltanto le colonne che sussistono ancora oggi. Trovò anche molto danneggiato il sepolcro di Cecilia Metella, che all’epoca della sua prima visita a Roma sorgeva quasi perfettamente integro. Allora però, malgrado tutte le distruzioni, di molti monumenti dell’antichità si conservavano resti molto maggiori che non oggi. L’impressione che essi facevano deve essere stata straordinariamente pittoresca perché una vegetazione di più secoli sembrava coronarli. Leggende immaginose si legavano a queste rovine che diventavano così una fonte inesauribile di ispirazione e di studio. Ma agli occhi di un popolo umiliato e ignorante, uomini come Brunelleschi o Donatello, perennemente impegnati nel disegnare, misurare, rilevare e mettere allo scoperto le rovine seppellite, apparivano come inquietanti cercatori di tesori nascosti. Von Pastor non si ferma qui e appunta come le mura leonine erano così guaste che durante la notte, dalle desolate campagne, penetravano in città i lupi che rendevano malsicuri i giardini vaticani e addirittura dal camposanto vicino San Pietro levavano i morti dalle cripte.
Questa visione dell’antichità così a fosche tinte abbozzata da von Pastor e, a dire il vero, anche da altri studiosi suoi contemporanei, forse appare poco credibile, ma questi contrasti risultano così marcati da spiegare anche alcuni fatti poco plausibili e incomprensibili; perché di un secolo intero, il Quattrocento, a Roma esistano così pochi arredi, mentre si conservano oggetti in materiali preziosi più rari e più costosi del legno. Un secolo di miseria in cui i mobili divennero, a causa della fame, del bisogno e del freddo, legna da ardere, e dunque se ne fecero meno che in altre epoche. Si vedrà, ad esempio, nei molti documenti citati da Eugène Müntz (1845-1902) su quel secolo a Roma, che gli arredi lignei sono molto meno frequenti di quelli in materiali preziosi, così come quadri, affreschi, sculture.
Mi sono chiesto veramente perché se a Firenze o a Venezia sono pochi i mobili del Quattrocento, pochi, ma non totalmente assenti, a Roma non esistono quasi affatto. O almeno questa è la mia conclusione. In realtà Martino V e altri papi della sua epoca non avevano la possibilità di pensare tanto a fabbricare essendo il loro tempo destinato a ricostruire, a restaurare e a proteggere piuttosto che a creare di sana pianta. Devo dire schiettamente che non sono del tutto convinto di avere una sola risposta a questi dubbi, ma è possibile, via via che mi pongo questa domanda, che il tempo possa darmi ragione. Roma non è mai uguale alle altre città.

 

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