Dopo don Milani e Gianni Rodari, la storica Vanessa Roghi affronta il tema della scuola democratica ne Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica (Laterza, pp. 224, euro 18).
Il libro è «una biografia rovesciata» che traccia il percorso collettivo del Movimento di Cooperazione Educativa (Mce) e una storia della pratica didattica che – nella sua concretezza – è la cartina al tornasole della scuola italiana tra gli anni ’50 e ’70.
Una scuola che si voleva democratica, mentre oggi democrazia viene intesa da qualcuno come «una degenerazione» perché le idee di Mce, derivate dai pedagogisti Célestin Freinet e John Dewey, sono state gattopardescamente svuotate.
LA PEDAGOGIA di Lodi germoglia da un fertile humus: il suo antifascismo e gli insegnanti che come lui vogliono applicare la Costituzione a scuola. Nella nuova Italia, il bambino va messo al centro: una pratica semplice da applicare anche nelle scuole più sperdute e che ne hanno più bisogno, come Vho di Piadena dove insegna lui. Si va per tentativi grazie a insegnanti che mettono in discussione il proprio modo di fare scuola adottando pedagogia dell’attivismo, puerocentrismo, metodo sperimentale. Questo mentre in Italia tutto cambia tranne la scuola: al predominio cattolico fa da contraltare l’assenza di dibattito a sinistra.
Di qui i primi fraintendimenti, che Lettera a una professoressa e il ‘68 esasperano dimenticando che il testo di Barbiana è stato scritto con la metodologia del testo libero appresa da Lodi. La pedagogia di don Milani è centrata sul suo carisma e non è replicabile, Mario Lodi cerca un modello riproducibile in ogni scuola.
Ma con il ’68 anche Mce mette tra parentesi la didattica e, invece di riformare la scuola da dentro come nerbo di un Paese democratico, vorrebbe abbatterla come struttura. Lodi funge da cerniera tra questi due aspetti, come mostrano i suoi libri: da C’è speranza se questo accade a Vho a Il paese sbagliato, una risposta alla Lettera di Barbiana che riassume vent’anni di Mce aprendosi alla scuola militante degli anni ’70, fino alla nuova edizione bestseller Einaudi di Cipì pubblicata nel 1972, un passero che scopre che la tradizione nasconde l’inganno dei più deboli e che la salvezza è un’azione collettiva. Lodi è sempre più una guida ma non tralascia l’impegno: lettere, convegni, la Biblioteca di Lavoro con nuovi testi scolastici (altra richiesta di Barbiana).
Ma è infine costretto ad ammettere che il suo metodo rimane confinato a poche isole felici, mentre il resto arranca tra insegnanti affezionati all’autoritarismo, edifici cadenti, libri di testo senza senso e un’istituzione che fatica ad adattarsi al presente nonostante alcune riforme come la scuola media unificata del 1962. Inoltre, il suo metodo viene spesso adottato superficialmente: Cipì funziona se si adotta il testo libero con cui è scritto, non se viene usato per pensierini o riassunti.
I MOTIVI DIETRO a questa discrepanza sono molti e strutturali: inadeguata formazione e scarsa vocazione degli insegnanti, intrusione di motivi estranei alla didattica e una macchina burocratica che recepisce solo ciò che fa propaganda. In tutto ciò, come osserva Lodi nel 1973, gli insegnanti rischiano di essere i capri espiatori di un supposto fallimento della scuola democratica, mentre sono vittime di strutture ideologiche oppressive.
Alcuni, oggi, vorrebbero risolvere questi problemi tornando alla severità del passato. Ma – sostiene Roghi con forza – l’unica soluzione è la cooperazione educativa, che permette a ogni insegnante di riflettere su ciò che può fare in classe, anche senza leggi o riforme; altrimenti si torna al maestro carismatico, che cambia chi lo incontra ma raramente la società.
Come fecero gli alunni di Lodi scrivendo Cipì, bisogna aprire la finestra e farsi domande perché l’unico modo di correggere un paese sbagliato è immaginarne uno giusto: «Non è facile, ma neppure impossibile. Se è accaduto una volta, al Vho, tanti anni fa, può accadere di nuovo, ogni giorno ovunque».