Scoperte Un manoscritto cinquecentesco restituisce i Frammenti che evidenze paleografiche, filologiche e stilistiche attribuiscono all’autore del «Principe»
In un codice della Biblioteca Nazionale di Firenze una raccolta di scritti rimasti finora sconosciuti
di Paolo Di Stefano
La questione delle questioni, per i filologi, è sempre quella: succederà mai che qualcuno trovi un autografo di Dante Alighieri? Anche solo una riga, un frammento o una parola, anche solo una firma autografa apposta a un documento. Colui il quale riuscirà a individuare una carta vergata dalla mano di Dante farà bingo a futura memoria ed entrerà nella storia tout court e non solo nella storia della filologia. Pare che il patriarca dei paleografi italiani, Emanuele Casamassima, che fu direttore della Biblioteca Nazionale di Firenze, a chi gli chiedeva consigli su dove cercare un autografo dantesco rispondesse senza tentennamenti: «È di là», indicando i fondi antichi della stessa biblioteca. Fatto sta che finora il manoscritto più ambito non è saltato fuori. Ma succede sempre qualcosa che incoraggia a continuare le ricerche senza perdere le speranze. Anche se poi spesso, in questo ambito, le scoperte clamorose sono più il frutto del caso che dell’ostinazione cieca. Naturalmente si tratta di un caso «non casuale», nel senso che anche il caso va guidato, com’è accaduto in questi giorni per un inedito di Machiavelli. Non un autografo (quello del Principe è un altro oggetto del desiderio finora frustrato), ma un inedito, ovvero un testo ancora sconosciuto. E ciò si è realizzato nel corso del più (apparentemente) servile dei lavori: una «banale» catalogazione.
Ma andiamo con calma. Bisogna partire da Giuliano de’ Ricci (1543-1606), il nipote di Machiavelli, cioè il figlio di Bartolomea, detta Baccia, figlia di Niccolò. Giuliano, battiloro fiorentino, figura politica di secondo piano nell’entourage mediceo, aveva avuto l’incarico, insieme al cugino Niccolò (figlio di Bernardo, primogenito di Machiavelli), di «rassettare» le carte del nonno. Una gran parte del lavoro di Ricci confluì in un codice che raccoglie un notevole numero di testi letterari e documentari machiavelliani ereditati dal lascito familiare e copiati dallo stesso nipote. Questo codice, noto come Apografo Ricci, è conservato nel fondo Palatino della Biblioteca Nazionale di Firenze, che contiene la raccolta di libri e manoscritti inaugurata nel 1771 da Pietro Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana, e notevolmente incrementata dai suoi eredi ottocenteschi anche grazie all’acquisizione dei patrimoni librari delle famiglie fiorentine entrate in crisi durante l’Ancien Régime.
Incredibilmente, il cosiddetto corpus Palatino (1.500 manoscritti) non è mai stato catalogato nella sua interezza e solo da un anno, grazie a un’iniziativa del responsabile della sezione manoscritti e rari David Speranzi, è partito un progetto (Manus online) per un inventario completo. Ovviamente con la regia dell’attuale successore di Casamassima, Luca Bellingeri, direttore della Biblioteca Nazionale di Firenze, che nel 1861 si costituì grazie all’unione del fondo Magliabechiano e della biblioteca Palatina Lorenese (che vantava 3 mila codici). Il regesto è stato affidato a Daniele Conti, paleografo e borsista dell’Istituto Nazionale Studi sul Rinascimento, e ha già prodotto il ritrovamento di un autografo di Francesco Guicciardini con un testo inedito di materia militare.
Ma la vera grande scoperta è avvenuta nelle ultime settimane, quando Conti si è imbattuto in un codice mai consultato prima e per tanti aspetti simile all’Apografo Ricci. Si tratta di un manoscritto composito fatto allestire nella seconda metà del Cinquecento dallo stesso Ricci e sommariamente inventariato come Cronica. La prima delle tre sezioni è la trascrizione della Cronica domestica dello storico fiorentino Donato Velluti, mentre l’ultima contiene un lungo frammento estratto dalla Istoria fiorentina di un altro storico e politico, Domenico Buoninsegni. Ma è la parte centrale quella più sorprendente: si tratta di cento carte, divise in due fascicoli, con numerosi Frammenti storici fin qui del tutto sconosciuti e attribuibili niente meno che a Machiavelli, anche se non sono redatti di suo pugno, ma trascritti (probabilmente dall’originale) in un’officina di copisti coordinata dallo stesso nipote Giuliano.
Sono carte la cui redazione accompagna, scandendolo anno dopo anno, il lavoro del secondo cancelliere della Repubblica fiorentina, ruolo svolto da Machiavelli tra il 1498 e il 1512. Detto ciò, nulla di definitivo si può dire a proposito dei tempi di stesura del testo originale. Fatto sta che le cronache e gli appunti registrano in forma quasi diaristica fatti avvenuti nel lungo arco temporale che va dal 1497 al 1515: le prime scarne noticine si fanno sempre più narrative dal 1508/9, con racconti di momenti cruciali della storia d’Italia che estendono l’attenzione anche ai conflitti europei, compresi gli scontri tra francesi e inglesi, concludendosi con la descrizione della battaglia di Marignano tra l’esercito francese di Francesco I e gli svizzeri (1515).
Il carattere di questi materiali, come avverte Conti, aiuterà a comprendere meglio lo scrittoio di Machiavelli, il modo di operare e di elaborare le note storiche per riflessioni più «politiche». Si amplia così la documentazione dei frammenti storici che il buon nipote aveva messo insieme nell’Apografo, dove già Giuliano dichiarò di aver trascritto anche «giornali e memorie appartenenti a historie estratti da fogli o quadernucci di sua [di Machiavelli] mano»: una tipologia di certo in tutto simile a quella dei nuovi frammenti ora scoperti. Al pari di gran parte dei brogliacci machiavelliani ricopiati nell’Apografo, l’originale del codice riscoperto è andato perduto (non di rado l’autografo veniva eliminato dopo la trascrizione: un uso per noi oggi impensabile). E, segnala lo stesso Conti, «non è difficile tuttavia immaginare che si trattasse di quadernucci senza alcuna pretesa estetica e privi di legatura».
Come si arriva all’attribuzione al Machiavelli? Attraverso vari elementi che la rendono inequivocabile: prove paleografiche, filologiche e storiche che Conti esporrà nell’edizione critica di prossima pubblicazione presso «Incipit», una collana della Scuola Normale di Pisa.
Primo punto. La paternità è certificata dalle annotazioni dello stesso Giuliano de’ Ricci, che sulla prima carta dei due fascicoli di cui è composto il testo ha vergato di suo pugno (e nella sua grafia ben riconoscibile) il nome di «Niccolò Machiavelli», come usava fare quando copiava da un autografo dell’avo. Giuliano non era sempre affidabile nella trascrizione, specie quando la scrittura del nonno era informale e corsiva, dunque poco decifrabile. Non di rado è lui stesso a confermare le difficoltà: «l’originale si ritruovò presso di me fragmentato et non perfetto e tanto malconcio». Ma su una cosa non ammetteva deroghe: di fronte a un passo o a un testo di incerta attribuzione non mancava di segnalare puntualmente il dubbio o almeno di discuterlo.
Punto secondo. Nella stessa direzione conduce la storia del codice, conservato ininterrottamente in casa Ricci fino all’Ottocento insieme alle altre carte machiavelliane e agli altri materiali che sarebbero finiti nella biblioteca Palatina. Del resto, la legatura, ottocentesca, presenta caratteri analoghi agli altri volumi che contengono testi certi di Machiavelli.
Punto terzo. Un elemento interno è particolarmente interessante: l’incipit del testo coincide con un frammento storico già noto fin dall’Ottocento come testo di sicura paternità machiavelliana. Questo incipit è contenuto in un manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana e allestito dall’altro nipote di Machiavelli, il canonico Niccolò di Bernardo: lì il testo si arresta dopo una pagina, mentre prosegue nel codice Palatino di Firenze ora riscoperto.
Punto quarto. Un altro «dettaglio» che conduce all’attribuzione machiavelliana. Per approntare il codice, Giuliano de’ Ricci impiegò tre copisti le cui mani sono ben distinguibili: una di queste coincide, secondo l’identificazione di Conti, con quella che copia i frammenti storici di Machiavelli già noti attraverso l’Apografo Ricci.
Punto quinto, che potrebbe essere il primo. Il testo offre giudizi e considerazioni riconducibili al pensiero machiavelliano, per i quali è possibile individuare vari passi paralleli nelle sue opere. Un esempio evidente riguarda il racconto della morte di Cesare Borgia, che evoca il celebre capitolo VII del Principe in cui la carriera del cosiddetto duca Valentino viene ricondotta, nel bene e nel male, al contributo della fortuna: «Et così a costui come la Fortuna gli diventò nimica non valse né l’animo né la ferocia né la crudeltà né alcuna altra sua qualità le quali nella prospera fortuna erano in lui admirate». È vero che la materia di parte dei nuovi testi coincide con quella trattata, in un paio di opere compilative di analogo impianto, da Biagio Buonaccorsi, sodale e intimo amico di Machiavelli. Un approfondito studio comparativo però, come osserva Conti, «consente di apprezzare le differenze di stile e di pensiero tra i due autori, scialbo e cronachistico Buonaccorsi, con punte di assoluto vigore Machiavelli». A proposito della morte di Cesare Borgia, Buonaccorsi si astiene da ogni giudizio e si limita ad annotare: «Et questo fu el fine di costui che si havea proposto la monarchia di Italia». Dove il guizzo stilistico e il genio interpretativo del grande scrittore non appare neanche in lontananza.