Manuel Barrese, ROMA
Un martello, un guanto da officina consunto, una corona di spine, un teschio, una t-shirt purpurea, una scala da cantiere deteriorata dall’uso e dal tempo. E, ancora, bende dalla trama grezza, un panno sgualcito, la silhouette di una lancia, due pezzi di legno precariamente assemblati in modo da formare una croce. Sono alcuni degli «oggetti», familiari e perturbanti, passati in rassegna da Luis Serrano nella mostra alla galleria Carlo Virgilio di Roma (fino al 7 maggio). La personale Passio è composta da trentatré tele in cui il pittore spagnolo, attraverso un realismo incisivo ma mai stucchevole, sembra riflettere sulla portata iconico-simbolica degli strumenti della Passione di Cristo. Il tradizionale, e in un certo senso anche abusato, repertorio di immagini che scandisce la settimana santa è evocato in una visione polisemica e volutamente ambigua dove si sovrappongono il sacro e il profano, l’eterno e l’effimero, l’aulico e il dimesso, la memoria collettiva e il ricordo intimo, la sintesi e lo scrupolo descrittivo.
Serrano, formatosi tra Madrid e Roma anche nel campo della storia dell’arte, articola il suo discorso pittorico utilizzando una tecnica sapiente che tuttavia rifugge dai facili manierismi. Gli attributi iconografici della Passione sono fissati sulla tela con una levità che li rende degli emblemi incorruttibili, quasi dei prototipi di un moderno platonismo; allo stesso tempo però essi sono attualizzati, appaiono cioè immersi nella transitorietà dell’oggi; sono icone religiose ma, contemporaneamente, anche dei residui laici dell’hic et nunc.
La conciliazione di caratteri così antitetici, da un punto di vista formale, è raggiunta grazie all’utilizzo di una precisa formula compositiva che regola la messa a punto di tutto il ciclo: in ogni dipinto l’oggetto è rappresentato sempre in primi piani su sfondi grigi, intenzionalmente antinaturalistici, capaci di decontestualizzare le cose dallo spazio fisico così da esaltarne l’asciuttezza semantica. Lavorando sul modulo del frammento, l’artista isola il suo contrappunto visivo quasi a volerne svelare l’essenza segreta e, dunque, non crea delle «nature morte», genere che di solito presuppone un montaggio di elementi.
Osservando i feticci di Serrano si ha l’impressione di essere di fronte a fotografie segnaletiche. Valerio Magrelli, in uno dei testi di presentazione in catalogo, ha colto il carattere ambivalente di queste figurazioni che, trascendendo la sfera devozionale, sembrano alludere alla «scena di un crimine». A ben vedere, nelle opere in mostra traspare un’aura spaesante data appunto dall’indeterminatezza della rappresentazione. Nei quadri di Serrano tutto è enunciato con limpida chiarezza eppure tutto risulta contraddittorio. Si insinua persino il dubbio che il fulcro della narrazione sia legato al racconto evangelico. Che genere di rituale crudele si sta contemplando? Ciò che è contenuto sul piano pittorico descrive davvero i veicoli di un martirio santo? C’è una sottile empietà nel ritrarre come cose anonime i simboli della Passione oppure è proprio nella prospettiva più banale e bassa che si sostanzia il sacrificio di Cristo?