di Claudio Magris
Il successo fa bene alla salute, dice un proverbio tedesco. Ma talora, paradossalmente, il successo ottenuto in un campo è un inconscio ostacolo a riconoscere meriti e risultati raggiunti dalla stessa persona in un altro genere di creatività. C’è forse un inconsapevole bisogno di affibbiare etichette definitive, limitanti seppur piene di ammirazione. Molti articoli dedicati a Enzo Bettiza in occasione della sua morte, un mese fa, hanno celebrato il grande giornalista, la sua capacità di gettarsi sulla realtà come un falco svelandone pure i fermenti ancora in embrione, la rara e originale cultura indissolubile dal fiuto istintivo, sensuale delle cose.
Ma Enzo Bettiza è anche — soprattutto — un possente narratore. Certo, ogni vero e grande giornalista è un forte scrittore, capace di afferrare la realtà e gli uomini e di sbatterli in faccia al lettore, facendo di ogni notizia un racconto, perché la notizia è un racconto della vita, spesso più bizzarra e fantastica di ogni finzione.
Il Diario di Mosca di Bettiza — ricordo la forte impressione quando lo lessi e ne discussi pubblicamente con lui, 34 anni fa — è grande giornalismo ed è il libro di un creativo e trascinante scrittore: la pagina che descrive l’inattesa umiliazione pubblica del maresciallo sovietico Vorošilov, durante una solenne cerimonia a Mosca, ha un’incisiva tragicità tacitiana.
La realtà esplorata e rovesciata come un guanto dal giornalista Bettiza nutre, come un grande, carnoso e insanguinato animale, il narratore Bettiza, i suoi romanzi che costituiscono una drammatica, feroce e vorace commedia umana del XX secolo — Il fantasma di Trieste , I fantasmi di Mosca , Il libro perduto , La distrazione . Fantasmi, ma di carne e di sangue; anche le idee, nei libri di Bettiza, sono lacerazioni e ferite.
Ci si chiede come abbia fatto a scrivere quell’epopea romanzesca, quelle migliaia di pagine, la cui debordante fantasia richiede tante accurate ricerche, scrivendo nel frattempo tanti articoli di inchieste e di viaggi, partecipando alla vita e alla polemica politica e alle tempestose vicissitudini dei giornali — protagonisti e vittime, armi e bersagli delle lotte di potere — e vivendo con intensità affettiva e brama dissipatrice, avida e generosa. Enzo deve aver giocato a poker o alla roulette col tempo, accumulando ore e anni come fiches sul tavolo verde.
I due ultimi romanzi, Il libro perduto e La distrazione — ma forse pure I fantasmi di Mosca — non hanno avuto il riconoscimento che la loro tumultuosa e abnorme epica merita. Bettiza è anche capace di sobria e intensa misura, come nel romanzo d’esordio La campagna elettorale (1953) — forse il più bel racconto su quei mesi del 1948 in cui si decideva il destino dell’Italia nella guerra fra Gog e Magog, fra Occidente e Oriente comunista. Esilio (1996) — letterariamente il suo capolavoro — è un libro di schietta poesia, col dono della leggerezza che quest’ultima richiede. Ma Enzo sapeva che il romanzo contemporaneo deve tuffarsi nel disordine, nella vitalità cancerosa di una Storia che è enfasi, strepito e furore come lo è la vita per Macbeth; immergersi nei naufragi, nei fallimenti della Storia, dei tentativi di darle significato e di fermare il suo scannatoio e anche dei tentativi di raccontare tutto questo armoniosamente. Stilisticamente Bettiza resta certo legato al romanzo ottocentesco più che a quello novecentesco che si costruisce disgregandosi e creando con quella disgregazione una nuova forma. Ma quella struttura ancora classica è pervasa da tutto il disordine, da tutta la febbre della narrativa più arditamente contemporanea. È logico che quelle sue opere restino al margine in una stagione in cui la letteratura è prevalentemente confezione di romanzi ben fatti e di trasgressioni politically correct .
Scrittore italiano ignaro o incapace di beneducata letteratura — la «letterarietà» odiata dai grandi autori triestini — Bettiza è dostoevskijano, balcanico per la violenza e la dismisura dei suoi romanzi in cui echeggia la musica torrenziale dei Crnjanski, dei Krleža, degli Andric. La ricchezza e la proliferazione della sua scrittura implicano inevitabili eccessi di generosa bulimia creativa.
Bettiza è soprattutto manniano, anche per la concezione del romanzo quale ibridazione di eventi, personaggi ed idee; manniano soprattutto per quel pathos di civiltà che risuona nella parola tedesca Kultur , intraducibile in altre lingue. Quella Kultur si disgrega e si infanga nel disordine e quel disordine, fangoso e metafisico, si identifica per Bettiza col comunismo. Senza il comunismo, ha scritto un suo fraterno ammiratore ed amico quale Dario Fertilio, non ci sarebbe stato Enzo Bettiza. Dopo una breve fascinazione comunista in gioventù, Bettiza ha trascorso la vita a denunciare, azzannare, smascherare, sfigurare, demolire il comunismo e in particolare il comunismo orientale, sovietico, slavo nelle sue diverse componenti e varianti. Esso gli appariva la quintessenza del totalitarismo, mummificazione del disordine, e ne provava repulsione e attrazione, forse per un senso di oscura vicinanza.
Ma in quell’affascinato accanimento c’era forse qualcosa di più profondo, che spiega perché la sua creazione artistica e i suoi personaggi abbiano quasi sempre a che fare col comunismo nelle sue versioni più sinistre. Forse perché, diversamente da altri totalitarismi, esso era stato la risposta, tragicamente e spesso barbaramente sbagliata, a domande e ad esigenze forse impossibili, ma grandiose e necessarie. Esso era stato «il sogno di una cosa» di cui diceva Marx, di un’umanità liberata. Il suo pervertimento — se implicito o non già nelle premesse è una domanda radicale — gli appariva la maschera crudele, sfacciata, grottesca della Gorgone ovvero della vita stessa.
Non a caso molti protagonisti dei suoi romanzi sono agenti, sicari, spie, martiri e vittime di quella Gorgone e la loro losca attività politica, pronta all’immolazione sacrificale propria e altrui, si mescola all’affascinante e repellente disordine pulsionale della vita stessa, alla perversione erotica, al tradimento di cui è intessuta l’esistenza. Per parafrasare il titolo di un libro di un altro ex comunista anticomunista, Arthur Koestler, molti suoi personaggi sono angeli caduti e dunque demoni.
Caduti forse inevitabilmente, perché la vita stessa è corruzione, anche se percorsa da struggente e vana nostalgia, come nel finale della Distrazione , in cui il nonagenario Peter Jarkovic è turbato da timore e tremore quando crede di vedere in una giovane donna un’altra donna amata tanti anni prima, in quel rattrappirsi, allargarsi, disperdersi e condensarsi del tempo che è la vita e che è il respiro del romanzo che la racconta. La stessa attività di spia, propria a molti suoi personaggi, rispecchia quel doppio gioco che è la vita, il cui pulsare è tradire, in primo luogo se stessi.
Certamente Bettiza, con l’unilaterale faziosità che è propria non tanto del politico o dell’ideologo quanto del narratore — che ne ha bisogno per evocare i suoi fantasmi —, ha visto troppo poco o non ha visto la calda umanità di tanti comunisti, capaci non soltanto di morire, ma anche di vivere con schietta fraternità, forse uno degli ultimi esempi di umanità classica. Pure grazie al comunismo, anche se certo non ai regimi comunisti, una plebe si è trasformata in popolo, in cittadini. Ascesa nobile e vana, oggi che l’intera società è culturalmente e umanamente una plebe volgare e pretenziosa.
Credo che fra Enzo e me ci sia stata una vera anche se intermittente amicizia, un’istintiva reciproca simpatia e complicità, forse in parte dovuta a una comune radice illirico-dalmata — la sua Spalato, la Sebenico di mio nonno, le isole quarnerine paesaggio della mia vita.
Sapeva essere prepotente, considerava ovvi e dovuti gli omaggi, gli onori, i lussi e l’accondiscendenza ai suoi piaceri e desideri — ricordo il suo indignato e anche divertito stupore quando, a Gorizia negli anni Sessanta, una ragazza gli disse di no. Ma c’era in lui — nel suo sorriso anche timido — un candore con cui giocava ma che era pure autentico, un tratto gentile nel senso antico del termine, una reale capacità di affetto. Quando faceva il mattatore gli dicevo «Enzo, vedo!», usando il linguaggio del poker grazie al quale, lui mi aveva raccontato tanti anni fa, in un difficile periodo giovanile si era mantenuto grazie alla sua abilità di giocatore. È stato lui, cinquant’anni fa, a segnalarmi a Giovanni Grazzini che dirigeva il supplemento culturale del «Corriere della Sera», il «Corriere Letterario», e che dopo avermi chiamato e incontrato mi fece subito collaborare al giornale.
Negli ultimi anni l’ho visto solo due o tre volte: una sera a Milano, a cena con Ottavio Missoni e Dario Fertilio, che ogni tanto mi escludevano mettendosi tutti e tre a parlare in croato. Enzo se n’è andato all’età del suo ultimo protagonista, Peter Jarkovic alias Pëtr Jarkov, e ci ha insegnato che siamo tutti un po’ alias. La sua dedica sulla Distrazione — «A Claudio, con vecchissima amicizia» — fa sentire che l’amicizia è forse il sentimento che resiste di più alla corruzione della vita.
- Mercoledì 23 Agosto, 2017
- CORRIERE DELLA SERA