L’orgoglio ritrovato

di John Lloyd
Il Regno Unito è uno stato europeo: vale la pena ribadirlo e iniziare da qui. Però, agli occhi di molti osservatori, il Regno Unito avrebbe perso la testa perché ha perso il suo senso di appartenenza all’Europa e, nel farlo, si è condannato all’emarginazione. La complessità non si addice agli articoli dei quotidiani e questo non farà eccezione. Ma vale la pena cercare di introdurre in questo dibattito un po’ di complessità.
Lo faccio nel momento in cui i britannici celebrano il fatto di essere stati i primi al mondo, ieri, a inoculare il vaccino anti-Covid ad alcuni anziani e ad alcune anziane, e dopo che si è saputo che il primo uomo a essere vaccinato, a quanto pare per puro caso, si chiama William Shakespeare. Lo faccio per cercare di spiegare il mix di ragioni per le quali le autorità del Paese (che di sicuro non sono populiste) continuano a sostenere che la Brexit deve esserci, e nondimeno si sforzano di dimostrare che la Gran Bretagna è ancora in Europa, anche se non più nell’Unione; e che la Gran Bretagna, che è stata lenta a prendere sul serio la pandemia e ne ha pagato le conseguenze, è tuttora capace di un’anteprima mondiale.
La Brexit non era un progetto populista: era un progetto democratico. I sondaggi effettuati dopo il referendum hanno dimostrato che chi ha votato a favore della Brexit lo ha fatto, prima di ogni altra cosa, perché voleva che le leggi da applicare in Gran Bretagna fossero promulgate in un parlamento britannico – in un sistema che potesse capire, e non in uno poco trasparente e perlopiù antidemocratico dell’Ue. Come in qualsiasi altro Paese europeo, inoltre, voleva una netta riduzione dell’immigrazione.
Da quando è andato al potere nel luglio dell’anno scorso, il governo ha perseguito quella che, per un Partito conservatore, è un’agenda di sinistra, promettendo fondi ad alcune regioni del nord dell’Inghilterra, del Galles e laddove l’industria ha perso terreno e dove i posti di lavoro della classe operaia nel settore minerario, nella produzione dell’acciaio e nel manifatturiero in genere sono stati sostituiti da posti di lavoro con un salario inferiore nel settore dei servizi. Quei lavoratori si sono sentiti – proprio come gli elettori della Lega, dei Cinque Stelle e di Fratelli d’Italia, proprio come gli elettori di Rassemblement National in Francia, proprio come i democratici svedesi in Svezia e molti altri ancora – tagliati fuori, abbandonati, vittime della globalizzazione e di un’Europa che l’aveva per altro abbracciata con molto entusiasmo, in verità una gran parte di essa. Il referendum è stato la loro occasione per protestare: e l’hanno colta. Qualsiasi governo che non avesse reagito dando una risposta a quelle esigenze avrebbe perso. Il voto a favore della Brexit – 52 per cento, con la Scozia fortemente contraria – ha vinto, come è ovvio, di stretta misura. Qualora il 52 per cento dei votanti avesse scelto di restare nell’Ue, adesso sarebbe salutato come buonsenso britannico. E sarebbe dimenticato.
La Gran Bretagna è da tempo in Europa: in verità, l’unica sua invasione andata a buon fine fu quella dei normanni francesi nell’XI secolo, diventati poi la classe regnante. Ruppe i rapporti con la religione europea, il cattolicesimo di Roma, nel XVI secolo: ma così pure fecero – per motivi più seri del semplice desiderio di ottenere un divorzio dalla prima moglie che il Papa gli aveva negato (questa la ragione addotta da Enrico VIII, a quanto pare per puntiglio) – molti tedeschi, olandesi, svizzeri, svedesi e tanti altri. Come molte altre nazioni, contrastò i progetti imperiali di Napoleone, e il fatto che sia un’isola implica che riuscì a farlo con successo. Lo fece nuovamente, di misura, nel 1940, resistendo al nazismo con l’aiuto dell’impero, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti.
Più della maggior parte degli altri stati, la nascita della nazione britannica si svolse in modo approssimativo con una lenta – e dopo il XVII secolo perlopiù pacifica – crescita del potere parlamentare e una graduale riduzione del diritto monarchico.
Questo implica che il parlamento occupi un posto considerevole nella vita politica della nazione, e che le pretese dell’Ue di sostituirlo – andate via via aumentando nel corso degli ultimi vent’anni – abbiano infiammato l’opposizione che sta dietro al voto per la Brexit.
In un’intervista l’anno scorso Eugenio Scalfari ha detto che è verosimile che il Regno Unito non farà mai parte di quello che egli considera indispensabile – un’Europa federale –, ma potrebbe far parte di una confederazione che lasci la sovranità nelle mani degli stati. Aveva ragione: e il rammarico è che fin dall’ingresso del Paese nell’Ue nel 1972 i governi britannici non abbiano mai detto chiaramente all’elettorato che l’ingresso nell’Ue era finalizzato a far parte di un mercato unico, di un’unione di democrazie che la pensano nello stesso modo e che dovrebbero collaborare per affrontare insieme i grandi problemi (quale è adesso, per esempio, il riscaldamento del clima), ma rispetto alla quale la Gran Bretagna si sarebbe sempre riservata il proprio status di stato nazione indipendente.
Se tutto ciò fosse stato detto chiaramente, la Brexit non ci sarebbe stata. Io, come altri, ho votato “Remain” nella convinzione che il Regno Unito non farà mai parte di uno stato europeo federale, poiché io, al pari di altri, non riesco a capacitarmi del fatto che nazioni che hanno a cuore le loro tradizioni e le loro pratiche democratiche in un prossimo futuro acconsentano di essere governati da potere centrale, creato non da secoli di battaglie popolari, ma da una burocrazia, seppur dotata di ideali progressisti.
In ogni caso, tutto ciò non è stato detto esplicitamente, e la Brexit c’è stata. La Gran Bretagna adesso deve percorrere la sua strada in un mondo più o meno devastato dal Covid-19, fuori da un’Unione che non può più fungere da riparo, con l’immane compito di trovare relazioni stabili nel mondo con contratti commerciali e di altra natura con tutti gli stati nazione – che di sicuro condurranno tutti negoziati molto rigidi, a cominciare dagli Stati Uniti.
Ecco perché i britannici, e soprattutto il governo, hanno celebrato con tanto clamore il fatto di essere stati i primi a vaccinare gli anziani e promettono di vaccinare, nei prossimi mesi, ogni altro cittadino. Tenuto conto che la sua gestione della pandemia all’inizio è stata costellata di errori (fatali), adesso, più di qualsiasi altro stato in Europa, la Gran Bretagna aveva bisogno di essere vista di nuovo come un centro di innovazione, di efficienza e di impegno. Doveva fugare, il più lontano possibile, la vecchia accusa di diventare un’isoletta. E doveva mostrarsi non come una nazione che desidera tornare a essere una superpotenza imperiale – come non è ormai più da lungo tempo, e soltanto una persona eccentrica potrebbe restare aggrappata a una visione simile –, bensì come uno stato europeo che ha qualcosa da dare al mondo, e così pure ai suoi cittadini.
E, più di quattro secoli dopo, a William Shakespeare.
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