di Angelo Panebianco
Se se lo possono permettere, ossia se dispongono di istituzioni sociali e politiche solide (è il caso, ad esempio, di certi Paesi asiatici) le società demograficamente giovani concentrano grandi quantità di risorse in istruzione, formazione, ricerca scientifica: in altri termini, quelle società investono massicciamente sul futuro. Invece, le società afflitte da declino demografico come l’Italia sono interessate solo al presente . Comprensibilmente,in una società siffatta, sanità (anche prima della pandemia) e pensioni contano molto di più di istruzione e ricerca. Pesano anche, nel nostro caso, certi vizi ormai di antica data: non puoi trattare per decenni e decenni le istituzioni educative pubbliche come se la loro funzione principale non fosse quella di educare ma di assorbire forza lavoro (è ciò che fa la classe politica fin dai tempi della Democrazia Cristiana) senza che alla fine non se ne paghi il prezzo. Declina drammaticamente la capacità di istruire e di formare. Si aggiungano gli effetti deleteri del populismo scolastico: l’idea perversa e balorda che a un certo punto diventa dominante secondo cui «diritto allo studio» sia un sinonimo di «diritto al diploma».
N on c’è nulla di strano se poi viene fuori che una maggioranza di diplomati non è in grado di comprendere un semplice testo scritto. Non c’è nulla di strano se i test Invalsi ci restituiscono l’immagine di una scuola pubblica a macchia di leopardo: alcuni «pezzi» (scuole) pregiati, privilegiati dalla sorte per ragioni misteriose, accanto a tanti altri che non formano ma «deformano» le menti degli allievi che hanno la sfortuna di finirci dentro.
La combinazione fra una tradizione culturale per la quale conta poco la qualità dell’istruzione e il declino demografico spiega benissimo perché gli allarmi che vengono periodicamente lanciati da questo o da quell’osservatore cadano sempre nel vuoto. Perché mai una società nella quale una quota così ampia di persone non ha figli e non è interessata ad averne oppure non ne ha più in età scolare, non dovrebbe sbadigliare annoiata quando sente qualcuno lanciare allarmi sullo stato delle istituzioni educative? E perché mai, constatato l’atteggiamento di disinteresse degli italiani per tali istituzioni la classe politica dovrebbe dedicare tempo e sforzi a cercare rimedi? E’ la democrazia bellezza: se agli elettori una cosa non interessa, ne consegue che non interessa nemmeno agli eletti. Non si è mai visto, ad esempio, un ministro della Pubblica istruzione che fosse allarmato per l’impreparazione con cui certi giovani escono dalla scuola pubblica e che avesse qualche idea su come rimediare. Come è tradizione, la scuola non è mai oggetto di approfonditi dibattiti pubblici. Però si presta a ogni tipo di incursione demagogica: si tratti, ad esempio, dell’abolizione degli esami di riparazione di diversi anni fa o dell’attuale eliminazione dei voti (da sostituire con giudizi) nella scuola elementare. Per lo più, l’obiettivo di tali riforme è ridurre le occasioni di stress per gli allievi. Cosa ne sia della loro preparazione finale è irrilevante.
Per la stessa ragione per cui non è possibile fare come il barone di Münchhausen, ossia sfuggire alle sabbie mobili tirandosi su per i capelli, non è possibile aspettarsi che sia la classe politica, autonomamente , senza esservi costretta da forze esterne, a investire in capitale umano, a restituire qualità alle istituzioni educative. Come ha scritto giustamente Ernesto Galli della Loggia ( Corriere , 25 maggio) il Paese avrebbe bisogno di una classe politica di ben altra levatura culturale rispetto a quella che (con qualche eccezione, si capisce) ci ritroviamo. Ma una tale classe politica potrebbe formarsi solo se le istituzioni educative tornassero ad essere di elevata qualità. Se non che, restituire ad esse quella qualità è l’ultima cosa che può interessare alla maggioranza dei politici attuali . Essi rappresentano bene i loro elettori; c’è, fra gli uni e gli altri, perfetta sintonia.
Per chi scrive questa è la principale ragione per la quale il dibattito aperto su questo giornale da Ferruccio de Bortoli ( Corriere , 17 maggio) è così importante. De Bortoli ha ragione: poiché in Italia c’è bisogno di investire in capitale umano e poiché la classe politica è incapace di convogliare autonomamente risorse e attenzione in quella direzione, bisogna in qualche modo scavalcarla, rivolgersi ad altri settori della classe dirigente e, in particolare , all’imprenditoria privata. Non certo perché essa possa prendere il posto dello Stato (non è ovviamente possibile né auspicabile) ma perché, investendo in istruzione più di quanto non abbia fatto fino ad oggi, possa favorire la diffusione di centri educativi di qualità. Alla lunga, dovendosi confrontare con essi, anche la scuola pubblica, presumibilmente, ne trarrebbe giovamento.
Un forte investimento in processi educativi, in capitale umano, da parte delle imprese avrebbe due conseguenze benefiche. Accrescerebbe per il Paese e dunque anche per le imprese, la disponibilità di personale qualificato. Con vantaggi per tutti. Dove è elevata la qualità dell’istruzione dei più, è anche elevata la più generale qualità della vita. Inoltre, contribuirebbe , nel medio- lungo periodo (superate le inevitabili polemiche del breve termine contro «la scuola del Capitale»), a ridurre la diffusa diffidenza — ma in molti casi si tratta di ostilità — verso l’impresa, che rende l’Italia così diversa da altri Paesi occidentali. Diffidenza e ostilità che le istituzioni educative pubbliche, fino ad oggi, non hanno mai saputo o voluto contrastare.