L’Italia celebra il Codice (e a Venezia il Codice trova il suo Manifesto ).

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VENEZIA  di Stefano Bucci

Il rigore quasi conventuale del Padiglione Italia curato da Vincenzo Trione si traduce fisicamente in una serie di spazi ben definiti, in bilico tra la cappella di un monastero e la piccola sala di un museo. Qui ognuno dei quindici artisti scelti dal curatore ha proposto una personale declinazione del concetto di avanguardia. Un concetto capace, da una parte, «di porsi in sintonia con gli esiti più audaci delle avanguardie internazionali contemporanee» e, dall’altra, di sperimentare il potere e la ricchezza di quell’immenso giacimento che è la memoria, in particolare quella italiana
A fianco dei protagonisti di questo Codice Italia , lo hanno fatto anche i tre grandi maestri stranieri chiamati a renderci omaggio (Peter Greenaway, William Kentridge, Jean-Marie Straub) con un’opera che rendesse gli italiani finalmente consapevoli dell’importanza del proprio passato (sia che si trattasse di Caravaggio, di Pasolini o di Giulio Cesare) come «strumento indispensabile» per guardare al futuro. Il risultato è una sequenza di silenziose stanze delle meraviglie, ispirate all’ Atlante della memoria di Aby Warburg, dove le nuove opere-simbolo elaborate per l’occasione sembrano misurarsi felicemente (anche grazie a didascalie efficaci per nella loro chiarezza) non solo con gli ingombranti fantasmi della nostra storia dell’arte, ma anche con quelli (personali e culturali) di ognuno degli artisti, chiamati a raccogliere i segni e i ricordi da cui hanno tratto ispirazione. Sia che si tratti delle affascinanti statue femminili di Vanessa Beecroft che guardano senza paura all’antico, dei torsi maschili immortalati con la Polaroid da Paolo Gioli o del Muro della memoria che Andrea Aquilanti ha realizzato guardando in maniera esplicita a Giovanni Battista Piranesi.
Il Manifesto contro la dimenticanza curato da Hans-Ulrich Obrist (in memoria dello storico marxista britannico Eric Hobsbawn), e che verrà presentato ufficialmente domani nel corso dell’inaugurazione ufficiale del Padiglione Italia, non potrebbe essere migliore «appendice» al progetto messo in cantiere da Vincenzo Trione.
Scaturita quasi per scherzo da una conversazione con Umberto Eco (nella quale si lamentava per la scomparsa della scrittura manuale), l’idea dell’elvetico Obrist si è qui trasformata in un gioco della memoria a cui hanno partecipato una trentina tra scrittori, artisti, intellettuali. A loro è stato chiesto di scrivere (naturalmente a mano) un pensiero appunto sulla memoria e di fermarlo su un post-it. Un gioco che ha coinvolto, tra gli altri, Gillo Dorfles, Claudio Magris, Jacques Herzog, David Lynch, Ragmar Kjartansson, Donald Sasson.
Leggere le loro variazioni sull’idea del ricordo può davvero rivelarsi sorprendente: per lo scrittore inglese Jeremy Millar, ad esempio, «la memoria è un negozio di ferramenta dove gli scrittori cercano di prendere la roba gratis finché tirano fuori l’asse che stava in fondo alla pila e gli cade in testa tutta la sofferenza».
Partendo da questo Manifesto inevitabilmente fatto di frammenti di memoria (e che farà parte del catalogo di Codice Italia pubblicato da Bompiani) il passaggio alla installazione omaggio firmata da Peter Greenaway che apre il Padiglione Italia, appare logico: coloratissimo, pieno di suoni, scandito dei capolavori di Piero di Cosimo come di Masaccio, celebra la forza dell’immagine classica e allo stesso tempo il suo futuro.
L’isola movimentata del regista inglese rappresenta un buon punto di connessione tra il resto della Biennale, con la sua ricchezza di problematiche e la varietà delle sue installazioni free style , e la semplicità del Padiglione Italia. Un rigore di spazi, di toni, di luci, di progetto che evitano quell’effetto magazzino senza regole che in altre edizioni aveva penalizzato lo stesso Padiglione.
Dunque quindici differenti modi di intendere la propria memoria ma con un occhio costantemente rivolto al futuro, un futuro che si traduce in una serie di opere create espressamente per Codice Italia . Il duo Alis/Fillol ha così messo a confronto un calco in poliuretano espanso che sembra arrivare direttamente dal set fantascientifico di Alien con un code per archivio musicale digitale che contiene tutto quello che i due artisti amano ascoltare. Mentre Claudio Parmiggiani ha scelto come riferimento per la sua emozionante installazione imperniata su una enorme ancora di ferro che spezza un vetro, la cinquecentesca Melancholia di Albrecht Dürer. E se Francesco Barocco con le sue teste che guardano in modo evidente alla storia intreccia il Barocco napoletano con le sculture Gandhara d’area indo-pachistana, la sequenza Corpo antico di Antonio Biasiucci attualizza in maniera efficace il tema e le forme delle pale d’altare trecentesche.
Un gioco, quello dei rimandi e delle citazioni, che coinvolge tutti e che potrebbe durare all’infinito, ma che la rigida struttura pensata da Trione riesce a contenere: il Codex Vallardi di Pisanello per Giuseppe Caccavale; i calchi di Pompei per Nino Longobardi; le seicentesche nature morte dei Paesi Bassi per Marzia Migliora (uno del lavori più fotografati con quello della Beecroft); Gian Lorenzo Bernini (in particolare l’ Estasi di Santa Teresa ) per Luca Monterastelli; Luis Buñuel e un padre della fotografia come Hippolyte Bayard per Paolo Gioli; lo Spagnoletto e Mantegna per Luca Samorì; l’Ara Pacis per Mimmo Paladino; Bruno Munari e Man Ray per Aldo Tambellini (la sua più che una bellissima sorpresa è una riscoperta dovuta).
Anche se l’immagine più bella è forse quella di un grande maestro come Jannis Kounellis che ancora ieri si affannava a cercare la giusta luce per la sua strepitosa installazione (la sua memoria è una testa antica avvolta su uno straccio nero): il simbolo di un passato glorioso che non si compiace ma che sa invece guardare al futuro.
VENEZIA di Pierluigi Panza

Dov’è finito il virtuale? Nel 2008, con la Biennale intitolata Architecture Beyond Building di Aaron Betsky, la materia e le grandi dimensioni sembravano archiviate persino per la più concreta delle Belle arti: l’architettura. Attraverso simulazioni, proiezioni, giochi virtuali e spazi immateriali, il web — più del Capitalismo — sembrava riuscito ad anestetizzare l’estetica degli individui riducendoli «a una dimensione», come scriveva il filosofo Herbert Marcuse nel 1964.
Sette anni dopo, Venezia, la città più liquida della storia del mondo, pare riconnettersi alla materia e alla terra. E volersi riattaccare saldamente, proponendo opere gigantesche, che hanno creato non poche difficoltà di trasporto in laguna.
La mostra curata da Okwui Enwezor, All the World’s Futures , sembra aver bandito simulazioni virtuali, app, pixel e tutto ciò che l’effimero apparato «social» propone come contemporanea escatologia. Niente plastica, niente visual-data. Al loro posto le grandi parole al neon di Bruce Nauman, le centinaia di coltelli piantati per terra di Abdessemed, un’enorme arena che è «il sistema nervoso centrale della mostra» (Enwezor). E poi i teli neri di Murillo al Padiglione centrale alti una quindicina di metri, le trombe e il tamburo gigante ( Muffled Drums ) di Terry Adkins all’Arsenale alto sette metri, le gigantesche tele con figure a testa in giù di Georg Baselitz.
Quando non sono le grandi dimensioni, sono i grandi numeri a fare massa. I 75 lupi feroci che intendono azzannare una Pietà di Michelangelo (sarebbero un grido di denuncia contro gli attacchi al cattolicesimo), proposti dal cinese Liu Ruo Wang per il padiglione di San Marino, ieri pomeriggio non volevano proprio entrare dallo stretto portone del Centro Telecom per occuparne il chiostro.
Alla Fondazione Cini sull’Isola di San Marco le 110 figure acefale della polacca Magdalena Abakanowicz sembrano un esercito di terracotta composto da individui senza identità. Abbiamo altri esempi di questa tendenza all’Ateneo Veneto, dove la cinese Zhang Hong Mei propone una monumentale opera di 12 metri che riprende le antiche pitture dell’epoca Han e anche alla Fondazione Vedova ( Frammenti Expo ’67. Alexander Calder e Emilio Vedova , a cura di Germano Celant), dove ruota sopra la testa dei visitatori la gigantesca forma in alluminio proposta da Vedova all’Expo di Montreal nel ’67, che serviva per riverberare sul pubblico quanto riflesso dagli schermi.
Infine, anche nei circuiti più radical internazionali la memoria e la grande dimensione hanno occupato tutti gli spazi. Settimana scorsa, al Guggenheim è arrivato dallo Iowa (resterà fino al 14 settembre, a cura di Philip Rylands) il più grande Murale di Jackson Pollock, lungo sei metri di denso colore. A Ca’ Corner, da Prada, la mostra Serial / Portable curata da Salvatore Settis propone al piano terra i calchi in gesso in dimensioni naturali delle grandi statue dell’antichità e al primo la gigantesca riproduzione dell’ Ercole Farnese .
Il ritorno all’ideologia, riveduta e corretta dai salotti newyorkesi, non è certo la via percorribile come alternativa al pragmatismo decorativo di Jeff Koons e compagni, ovvero all’arte sostenuta dal sistema finanziario e dalle maison di moda. Meglio, semmai, arroccare con le proposte d’archivio, con la memoria, il recupero, la riproposta, il calco… Comunque sia, essersi presi un quarto d’ora di liberazione dal fideismo per il virtuale può consentire l’avvio di una rieducazione estetica.