Liberazione, c’è solo una strada

«Fischia il vento e infuria la bufera»: mai come quest’anno le celebrazioni del 25 aprile si svolgeranno in un clima rovente, tormentato da interpretazioni e sentimenti diversi. Le date del calendario civile se evocano fatti cruciali recenti riaccendano memorie inevitabilmente diversificate. In Italia la Resistenza ha avuto un forte grado di partiticità. È stata la sua forza – necessitata dall’obiettivo di sradicare il regime instaurato dal fascismo – e la sua difficoltà a imporsi nella coscienza di tutti gli italiani come la vicenda cardine dalla quale sono scaturite le fondamenta di una «Repubblica dei partiti», ormai crollata almeno nelle forme e nelle garanzie inscritte nella Costituzione. Il passaggio dalle memorie inevitabilmente divise ad una storia da accogliere quale quadro comune di riferimento non è stato ancora conseguito e chissà quando, e se, lo sarà mai. Eppure, comparata alle Resistenze europee, quella italiana vide la confluenza di apporti che coinvolsero partigiani combattenti e gran parte del popolo, militari e antifascisti che avevano preparato il terreno, giovani che scelsero sull’onda di ribellione etica e dubbiosi intellettuali in attesa. Vastissima fu la zona grigia di quanto si rassegnarono a guardare . Furono combattute più guerre, non tutte con la stessa energia e una medesima estensione territoriale: quella nettamente patriottica, quella ispirata da un classismo rivoluzionario e la guerra civile tra italiani, la più dolorosa e crudele. Ogni data della liturgia laica viene celebrata confrontandola con in mutevoli progetti che s’intravedono, con le speranze all’orizzonte. La guerra scatenata dalla Russia di Putin ha riaperto lacerazioni e interrogativi lancinanti che ci si illudeva fossero superati o gestibili con i metodi della diplomazia. Errori imperdonabili di analisi hanno fatto scambiare il crollo del Muro del 1989 per una svolta di per sé produttiva d’una ricomposizione dell’Europa sequestrata e avvio di una concorrenziale coesistenza. E la sottovalutazione o la rimozione dei conflitti scoppiati in decine di aree calde, una sorta di guerra mondiale a frammenti, virus  via via più contagioso e più nefasto della pandemia, è stata coperta da una retorica che oggi rivela la sua inconsistenza e si abbatte con tempestose folate sulle commemorazioni dedicate alla Resistenza plurale che ogni Stato ha «nazionalizzato» a suo piacere. C’è da augurarsi che la nebbia delle belle parole si diradi e che davanti a realtà che hanno risvegliato i fantasmi dell’odio etnico-imperiale si abbia un soprassalto di volontà attiva e concorde. Sarebbe importante che questo 25 aprile registrasse la ripresa di un concreto europeismo all’altezza della condizione che ci angoscia. A ben vedere, nell’esaltare le date che hanno contrassegnato la sconfitta degli orrori e delle stragi del nazifascismo e della guerra totale questa dimensione europea è stata sempre sottaciuta e sminuita. Si è teso a surrogare con doverosi omaggi alle vittime e con gesti simbolici politiche ragionevoli, rese difficili da un dilagante populismo. Così l’Unione europea si è frantumata in paralizzanti risse intergovernative. Non sono mancate azioni coraggiose e innovatrici per affrontare rischi ambientali, sanitari e inedite povertà. I sostegni decretati per aiutare la resistenza ucraina hanno testimoniato che esiste un pronto spirito di solidarietà. È incredibile  che dall’Anpi, associazione che raggruppò fieri partigiani, uomini e donne impegnati a battersi per la pace mettendo in gioco la propria vita, si siano levate prese di posizione ostili ad una controllata fornitura di mezzi militari e che il suo presidente abbia optato per un’equidistanza impossibile. Facendo somigliare il sodalizio ad un «refugium sinistrorsum» prigioniero di decrepiti pregiudizi. Intonate con questo difficile 25 aprile – alla vigilia Putin si appresta a organizzare parate trionfali a Mosca e Mariupol che proclama già in suo potere – sono piuttosto gli obiettivi di un’agenda europea, che non può tardare. Il primo è un’offensiva di pacificazione che imponga allo zar di cessare il fuoco e di trattare. Insieme occorre che si avanzi da subito la proposta di convocare una Conferenza sul modello di quella che condusse agli accordi di Helsinki del 1975, in grado di adottare un autentico sistema di sicurezza e di convivenza. È vero: l’Onu è maledettamente debole e da riformare, l’Ue divisa e impacciata. Eppure altre strade non ci sono per costruire una liberazione dal passato che non passa.  

                                                                                                                                       Roberto Barzanti

  

“Corriere Fiorentino”, 22 aprile 2022