Le spalle e il bambino

mio padre, un ricordo

di Mario Calabresi

Si può fare pace con la memoria grazie a una foto trovata in mezzo a sette milioni di negativi? Sì, se quella foto conferma il primo ricordo di una vita, se ti dice che quella sensazione che ti porti dietro da mezzo secolo era realtà. È una storia lunghissima che comincia cinquant’anni fa, il 17 maggio 1972.

A lle 9.15 del mattino il commissario Luigi Calabresi, mio padre, veniva ucciso sotto casa in via Cherubini 6 a Milano con tre colpi di pistola alle spalle. Era l’alba degli Anni di Piombo, tre anni prima c’era stata la strage di Piazza Fontana, ma per la prima volta con quell’omicidio era stato scelto un bersaglio, era stata costruita una campagna per distruggerlo e alla fine lo si era eliminato. Sarebbe successo centinaia di volte negli anni successivi. Quella stagione si sarebbe conclusa tre decenni dopo con l’omicidio del professor Marco Biagi, colpito per le sue idee riformiste sul mercato del lavoro.

L’omicidio di mio padre è lontano nel tempo quanto lo era il giorno della sua morte dalla marcia su Roma. Il mondo è completamente cambiato, non esistono più i partiti storici, è caduto il Muro di Berlino, è tornata la guerra in Europa, abbiamo conosciuto un altro terrorismo, di matrice islamica, sono nati internet e i social network, hanno inventato le auto elettriche e quelle a guida autonoma e l’Italia ha vinto due mondiali di calcio. Eppure il «caso Calabresi» non riesce a diventare finalmente un pezzo di storia e di memoria privata, continua a rimanere prigioniero della cronaca. È accaduto perché gli assassini, appartenenti al gruppo Lotta Continua, vennero individuati 17 anni dopo, perché i processi ebbero un numero record di gradi di giudizio e si protrassero per quindici anni, perché poi seguì un decennio di dibattiti sulla clemenza e la grazia. Sembra incredibile ma domani, dopo cinquant’anni e un giorno, si terrà a Parigi l’udienza per l’estradizione dell’organizzatore dell’omicidio, Giorgio Pietrostefani, che oggi ha 78 anni e da venti è latitante in Francia. Verrebbe da dire che siamo tutti, la nostra famiglia e la società italiana, prigionieri della cronaca.

Come uscirne? Alzando lo sguardo, dando sepoltura e ricordo ai morti e pacificandosi con i vivi. Mia madre ha insegnato a me e ai miei fratelli a non odiare, a non coltivare il rancore ma a guardare la vita con fiducia e serenità. Per questo, pur giudicando importante e preziosa, anche se tardiva, la decisione francese di non garantire ospitalità a chi si macchiò di reati di sangue negli Anni Settanta, noi oggi crediamo che il carcere di un uomo vecchio e malato non abbia più alcun senso. Più importante sarebbe avere da lui e dai suoi compagni di lotte parole di verità.

Ma torniamo a quella fotografia. Di mio padre conservo un solo ricordo: ero sulle sue spalle, eravamo in una piazza, in mezzo alla folla e c’era una banda musicale. Io ero un po’ spaventato dalla calca e dal rumore ma ero incredibilmente attratto dalla grande apertura dorata di un trombone. Lui mi chiese se volessi toccarlo, poi si mise a camminare e scavalcò qualcosa. Sento ancora la sensazione fortissima di stare attaccavo ai suoi capelli mentre lui mi stringe le gambe. Ci avvicinammo alla banda, lui parlò con qualcuno, chiese qualcosa, si piegò sul trombone e me lo fece toccare, solo per un attimo. Ero felice, non avevo più paura della folla, mi sembrava tutto solare e caldo. Quella sensazione di pienezza la sento ancora oggi, netta e pulita. Allora avevo solo due anni e mezzo e di quell’unica immagine non ne ho parlato con nessuno per molto tempo. Temevo potesse svanire, perché è l’eredità che mi ha lasciato: mi ha regalato la tranquillità in mezzo al disordine, una specie di pace che mi prende quando tutto intorno accelera.

La raccontai a mia madre solo negli anni del liceo e lei confermò tutto, andò a prendere l’agenda-diario che teneva allora e c’era scritto: «14 maggio: Gigi porta Mario a vedere la sfilata degli alpini. Rientra con paste, gelato e rose». Tra le pagine c’è ancora oggi una rosa di quel mazzo.

Due anni e mezzo fa, a ottobre del 2019, entrai per la prima volta in un luogo meraviglioso, una miniera di memorie che era contenuta nel caveau blindato di una banca alla periferia di Milano: l’archivio Publifoto, un’immensa collezione di immagini che raccontano l’Italia dagli Anni Trenta alla fine del secolo scorso. L’archivio, che rischiava di andare disperso, venne acquistato da Intesa Sanpaolo e oggi è parte delle Gallerie d’Italia di Torino che hanno inaugurato proprio ieri.

Venni accolto dalle archiviste, mi fecero fare un giro e mi mostrarono delle vetrine che contenevano i quaderni con l’elenco dei servizi fotografici scattati ogni giorno. Ne aprirono una e il caso volle che fosse quella del 1972. Io istintivamente afferrai un volume che aveva scritto «maggio» sul dorso, spiegai che volevo vedere che servizi erano stati fatti il giorno della morte di mio padre e poi ai funerali. Sfogliammo a partire dal 17 maggio, ma dopo un’istante sentii un’urgenza di tornare indietro, avevo fretta di andare alla domenica prima, il 14 maggio. Ci arrivammo e io trattenni il fiato, c’era scritto: «Sfilata degli alpini» e a seguire una serie di numeri di negativi e provini. Chiesi se potessi vederli e pochi minuti dopo li avevo tra le mani.

Sono partito da una busta piena di provini, mi avevano chiesto di indossare dei guanti bianchi di tessuto per non rovinare quei piccoli pezzi di memoria, e con grande delicatezza avevo tirato fuori un primo mazzo di scatti. Non ho avuto nemmeno bisogno di cercare, quasi subito mi sono trovato tra le mani la fotografia che avevo nella testa fin da bambino: il trombone. Non ci potevo credere, avevo sotto gli occhi proprio una meravigliosa campana dorata, quella parte dello strumento che mi era rimasta impressa e che avevo toccato. Sullo sfondo le guglie del Duomo di Milano. Il mio ricordo aveva un’immagine fisica, era uscita dal tempo ed era davanti ai miei occhi, lo avevo tra le dita.

Allora ho cominciato a sperare di trovare qualcos’altro, non sapevo nemmeno cosa, ma avevo sempre più fretta, così sono passato alla prima scatola: i negativi con le immagini della folla. Li ho sparsi sul tavolo, ho preso il lentino che mi avevano fornito e ho cominciato a passarli in rassegna, stavo cercando qualcosa che era sepolto nella memoria da decenni. Quando ho visto lo scorcio di Largo Cairoli che guarda verso Via Dante ho sentito in modo forte e chiaro che ero al posto giusto.

Dopo un attimo ho capito cosa stessi cercando: un bambino sulle spalle del padre. Il primo che ho trovato aveva un cappottino bianco e un cappellino, ma non mi diceva nulla. Il secondo era sulle spalle di un papà con un’impermeabile beige, ma lui era biondo. Poi ne ho trovato uno con una testa e delle orecchie simili alle mie, aveva una maglia chiara e del padre si intuivano solo le spalle e una giacca grigia. Ho smesso di cercare. Sono rimasto in silenzio. Mi sono improvvisamente calmato. Tutto era andato a posto.

Ho chiesto se fosse possibile stampare la foto in un formato grande e quando me l’hanno consegnata, qualche settimana dopo, sono andato a trovare mia madre, le ho indicato il bambino e le ho chiesto: «Ho mai avuto una maglia così e papà aveva una giacca del genere?». «Sì, direi di sì», fu la risposta. «Pensi che possa essere io?». «Ti somiglia, ma come possiamo saperlo con certezza?».

Siamo stati un po’ a guardare e a fare supposizioni e poi mi ha chiesto: «È importante sapere se eri proprio quello?». No, è più importante sapere che è accaduto e quella foto ha rimesso le cose a posto e le ha consegnate alla memoria.

https://www.corriere.it/