I tagli del passato, e quelli in arrivo a causa dell’aumento della spesa militare, limitano il godimento di un diritto essenziale dei cittadini
di Vittorio Bonanni
Pronto soccorsi al collasso. Pazienti in attesa anche per giorni in astanteria prima di essere ricoverati. Medici che si dimettono, al Cardarelli di Napoli, perché impossibilitati a svolgere il loro lavoro. Nessun piano per l’occupazione e sempre meno risorse stanziate. Insomma, quello che doveva essere – come aveva promesso il ministro della Salute, Roberto Speranza – un settore da potenziare senza indugi dopo il dramma della pandemia rischia di essere messo in secondo piano, privilegiando in questo periodo le spese militari.
Il quadro è disarmante: entro il 2025 spariranno circa quattromila medici, che non verranno sostituiti causa nessun piano di assunzioni a livello nazionale. Tutto, ovviamente, nasce da anni e anni di riduzione irresponsabile dei posti letto. Al sistema sanitario nazionale, negli ultimi dieci anni, sono stati sottratti 37 miliardi (25 solo nel 2010-2015), mentre è aumentata la spesa verso la sanità privata. Scelte che hanno portato alla cancellazione di oltre quarantamila posti letto, da parte dei vari governi che si sono succeduti, i quali, a eccezione del Conte uno, hanno visto partecipe la principale forza progressista – ovvero il Partito democratico, che si è ben guardato dal frenare questa tendenza.
Il quotidiano “La Stampa” riporta, a riguardo, una denuncia del tribunale per i diritti dei malati: “A causa di queste scelte medici e infermieri, invece di affrontare le emergenze, finiscono per sostituirsi ai vari specialisti, facendosi carico di assistenza e accertamenti diagnostici. Un sovraccarico di lavoro che costringe a saltare i turni di riposo, a fare in media sette notti al mese, il tutto per uno stipendio base che è di 2.800 euro quando parliamo di medici, di 1.500 euro per gli infermieri. Che arrivano poi a 1.900 euro, ma dopo trent’anni”.
Per questo si registrano fughe che determinano un forte ridimensionamento degli organici, e non soltanto per l’uscita di chi raggiunge l’età pensionistica. Ciò significa che circa dodicimila medici ogni anno devono fronteggiare qualcosa come ventuno milioni di accessi. Secondo un’indagine presentata dal Simeu (Società italiana della medicina di emergenza-urgenza), il cui congresso è previsto per il prossimo 13 maggio, “circa il 30%, un medico su tre, è pronto a gettare la spugna nell’arco di sei mesi, massimo un anno”.
Anche Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Annao Assomed (sindacato dei medici ospedalieri), ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la sanità italiana. Secondo il sindacalista, in particolare i dipendenti pubblici, “sono schiacciati da una macchina che esige troppo e non li ascolta mentre aumentano i carichi di lavoro, complessità assistenziale, stress fisico e psichico”. Motivo per cui “i medici fuggono dagli ospedali”. E, aggiunge Palermo, “la sanità, oggi, è, in pratica, governata all’insaputa dei medici e degli operatori sanitari, fattori produttivi estorti del valore del proprio lavoro, numeri chiamati a produrre altri numeri”.
Dicevamo della responsabilità di chi invece avrebbe dovuto difendere la sanità pubblica, cercando di frenare tagli e favori alla sanità privata. È invece successo il contrario, e non sembra esserci una inversione di tendenza. Tra i tanti a denunciare questo stato di cose, c’è Alessia Petraglia, ex senatrice e attuale segretaria di Sinistra italiana Toscana, regione alle prese con una grave carenza d’organico all’Asl Toscana nord ovest. “Finisce lo stato d’emergenza, ma non l’emergenza”, dice Petraglia. “Mentre da una parte assistiamo a nuovo aumento dei casi di positività, dall’altra l’azienda Usl Toscana nord ovest decide di non rinnovare il contratto a ottanta operatori socio-sanitari interinali”. Poi punta l’indice contro il presidente della regione Toscana Eugenio Giani: “Laddove servirebbero assunzioni e stabilizzazioni, la giunta regionale taglia trecento milioni di euro alla sanità, colpendo quei lavoratori che da due anni sono in prima linea nella lotta alla pandemia. In questi giorni il Senato discute dell’innalzamento della spesa militare. Per quello le risorse non sembrano mancare mai”.
Non dorme sonni tranquilli neanche l’assessore alla Salute della Regione Puglia, Rocco Palese, schierato a destra all’interno della giunta di sinistra presieduta da Michele Emiliano. “Non si può che esprimere grande preoccupazione – sostiene – per quanto prevede il Def (Documento di economia e finanza) appena approvato e nel quale, in prospettiva, il governo prevede di tagliare di circa tre miliardi di euro la spesa sanitaria nei prossimi tre anni. Speriamo che, già a fine anno, con la legge di Bilancio, la previsione possa essere corretta al rialzo”. Palese precisa come “per quest’anno, in linea con gli ultimi due anni di pandemia, è previsto un rialzo della spesa sanitaria nazionale di circa il 3%, per un totale di 131 miliardi di euro. Ma, in base a quanto prevede attualmente il Def, si scenderebbe a 130 nel 2023 e a 128 nel 2024, per risalire di poco, a 129 miliardi nel 2025”.
La polemica è scoppiata il 26 marzo scorso, quando la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad aumentare le spese per la “difesa” militare fino al 2% del Pil. Questo significa passare da 68 a 104 milioni di euro al giorno, da 25 a 38 miliardi ogni anno. Tredici miliardi in più per le spese militari. Un aumento che, com’è noto, oltre all’opposizione di Sinistra italiana, ha visto la battaglia dell’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, contrario all’aumento delle spese militari, che è riuscito a ottenere che questo rialzo avvenisse gradualmente, spostando così la data dal 2024 al 2028, proprio in virtù delle priorità che l’esecutivo deve affrontare, in primo luogo la sanità.
L’offensiva contro il servizio sanitario nazionale, istituito nel 1978 da una legge dello Stato, è dunque tutt’altro che terminata. L’importante stanziamento di fondi, in questi anni, per sostenere la sanità privata, soprattutto nelle regioni del Nord, ha dimostrato la gravità di quella scelta con l’arrivo della pandemia. Ma la cultura liberista, che ha determinato questa politica, è tutt’altro che messa in soffitta, visto che sul fronte degli investimenti pubblici si fa un passo avanti e due indietro. Da quando è nata la Repubblica, la nostra Costituzione, una delle più avanzate del mondo, non è mai stata applicata alla lettera. La filosofia della politica sulla sanità, che abbiamo descritto, ignora completamente l’articolo 32 della Carta costituzionale che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Una dichiarazione di intenti che rischia di rimanere tale.
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