di Ernesto Galli della Loggia.
Destra e Sinistra appaiono in
crisi e quasi
in via di scomparsa, mentre al loro posto
si va delineando
per il futuro un ampio schieramento ultramaggioritario, tendenzialmente centrista, capace di inglobare quasi tutte le componenti parlamentari. Contemporaneamente si diffonde, sempre più massiccio nelle periferie ma ormai anche nel Parlamento nazionale, il fenomeno del trasformismo. Oggi è questa, nella sua essenza, la situazione che ci sembra nuova della nostra vita politica. Ma a ben vedere lo è solo relativamente.
La situazione odierna, infatti, ricorda da vicino la situazione che si verificò
in Italia già negli ultimi decenni dell’Ottocento dopo l’esaurimento della Destra e della Sinistra risorgimentali. Le quali, peraltro, anche durante il Risorgimento erano state sì contrapposte, ma fino a un certo punto. Non a caso Cavour governò per anni, come si sa,
con una maggioranza che
in pratica escludeva solo
la Destra e la Sinistra estreme: maggioranza battezzata con il nome significativo di «connubio».
Questo connubio paratrasformistico — che di fatto s’interruppe solo per pochi anni subito dopo l’Unità — durò in pratica
fino alla Prima guerra mondiale. In tutto questo tempo l’amplissimo schieramento politico che si riconosceva nelle istituzioni dello Stato — l’eterogeneo «partito costituzionale» — non fu capace di dividersi stabilmente in una Destra e in una Sinistra contrapposte. Sicché la rappresentanza parlamentare rimase perlopiù identificata, nella sostanza, in una vasta palude filogovernativa.
Fu solo con la comparsa nell’aula di Montecitorio, all’inizio del Novecento, dei socialisti prima, poi dei cattolici, dei fascisti e dei comunisti, e dei loro rispettivi partiti, che le cose cambiarono. Fu solo allora che nel Parlamento come nel Paese si stabilirono vasti schieramenti con discrimini veri e contrapposizioni non aggirabili; per tutto il XX secolo c’è stato posto, così, solo per le grandi ideologie, per le alternative drammatiche, per i grandi partiti organizzati. Ma è proprio tutto ciò — cui si doveva storicamente la fine del monopartitismo virtuale e del trasformismo, propri della precedente tradizione italiana — che è scomparso tra il 1992 e il 1994 sotto i colpi di Mani pulite.
Ancora nel ventennio successivo è più o meno sopravvissuta una forma spuria di contrapposizione Destra-Sinistra grazie all’arrivo sulla scena di Berlusconi: grazie cioè all’accanimento del padrone di Mediaset nell’agitare il fantasma dell’anticomunismo, e alla risposta dei suoi avversari con il controfantasma dell’antifascismo. Finalmente però, con lo spappolamento di Forza Italia, il Novecento italiano è terminato, e di conseguenza ha potuto scomparire anche quanto restava di ciò che un tempo si chiamava comunismo.
L’Italia post novecentesca si ritrova così oggi riconsegnata alla sua più antica peculiarità. Ritorna in un certo senso alle origini post risorgimentali e incontra di nuovo il trasformismo. Sconfitta nel sangue l’illusione fascista, tramontate le grandi ideologie d’impianto transnazionale le cui divisioni erano servite in passato a modellare le nostre divisioni, il sistema politico italiano si trova oggi costretto a utilizzare i materiali ideologici autoctoni, a derivare il suo discorso unicamente dal Paese reale, dalle risorse intellettuali e morali che esso riesce a mettere in campo. Che però non sembrano gran cosa.
Se oggi ci riesce così difficile dare contenuti effettivi a questa o a quella piattaforma di partito, dividerci tra Destra e Sinistra, non è perché nella realtà manchino i contrasti d’interesse e le divisioni. È innanzi tutto perché la società italiana sembra avere perduto la capacità di pensare realmente se stessa, a cominciare dalle ragioni di fondo della crisi del Paese. Sembra non avere più la fantasia e l’audacia di immaginare vie e strumenti nuovi, nuovi compiti e nuovi doveri. Ed è come se l’assenza di queste cose si porti con sé anche un’assenza d’interesse e di voglia di futuro, anche il desiderio e il gusto delle contese forti sulle cose vere: che è per l’appunto ciò che genera i partiti. In questo modo al posto delle lotte abbiamo le risse, al posto delle discussioni le polemiche, al posto dei giornali e dei libri i talk show popolati di «ospiti» capaci solo di ripetere slogan a cui si sospetta che essi siano i primi a non credere. La nostra vita e il nostro discorso pubblici mancano di profondità e di passione. Appaiono sempre più poveri, ripetitivi, privi di orizzonti e di progetti. Come possono nascere dei veri partiti in queste condizioni?
Esiste poi un altro insieme di ragioni che spiegano il ritorno alla convergenza generale verso il centro e del trasformismo. Una società che è tornata ad essere fragile — oggi per giunta con pochi giovani e molti anziani —, una società dalle risorse di nuovo tendenzialmente scarse, è spinta naturalmente a stringersi intorno al potere, a cercarne la protezione, così come ha fatto per secoli. È spinta naturalmente a credere solo nel potere, e prima di ogni altro nel potere politico: tanto più quando questo, come accade oggi, assume un aspetto marcatamente personale che lo rende più visibile e temibile, e perciò più forte. È spinta a credere, del resto, non solo nel potere di chi ha in mano la cosa pubblica. Anche il potere malavitoso, ad esempio, appare oggi ben più forte di venti anni fa, se è vero come è vero che ci si mette sotto la sua tutela non più soltanto nelle tradizionali zone del Mezzogiorno ma anche in Emilia, anche in Lombardia. Mentre dal canto suo pure il familismo, la protezione familiare, appaiono più forti che mai.
Chi l’avrebbe detto agli albori della Seconda Repubblica che alla fine essa ci avrebbe ricondotto all’Italia dello Statuto: senza partiti e con un governo di fatto privo di alternative.