di Massimo Franco
C’è da chiedersi che cosa sarebbe successo in questi mesi, se invece di Mario Draghi nei consessi europei e statunitensi fosse apparso un premier espresso dai populisti; per di più, sostenuto da una maggioranza tanto eterogenea quanto risicata. Non è difficile prevedere che peso e credibilità dell’Italia sarebbero stati fortemente ridotti, al di là dell’inesperienza dei protagonisti e nonostante la garanzia costituita dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. In queste settimane nelle quali il governo di emergenza e di unità nazionale viene interpretato in modo conflittuale e ridotto a una sorta di coalizione dei nemici, non sarebbe male ricordare il punto di partenza: giugno 2018, maggioranza anti-europea e anti-Nato, con Conte né candidato né eletto in Parlamento dai grillini, cooptato come premier; e con il Quirinale costretto a sfiorare una crisi istituzionale per avere detto no alla proposta leghista di nominare ministro dell’Economia un personaggio ostile alla moneta unica. Per poco più di un anno, osservati con diffidenza dal resto dell’Europa, Cinque Stelle e leghisti hanno governato con rapporti sempre in bilico, fino a cadere fragorosamente tra insulti reciproci.
M a Conte è sopravvissuto al cartello populista-sovranista, rimanendo a Palazzo Chigi con una maggioranza agli antipodi, insieme con il Pd. Ebbene, adesso da ex alleati e avversari Matteo Salvini e il capo grillino sembrano riavvicinarsi. Ma non in nome di una strategia declinata in positivo, a meno che non si voglia assecondare un pacifismo a dir poco sospetto nelle pulsioni anti-europee e anti-americane.
La convergenza è nel segno dell’ostilità a Draghi, e dei distinguo ripetuti e quasi pregiudiziali per le misure prese contro l’aggressione russa all’Ucraina. Di più: verso qualunque provvedimento che possa tornare utile per logorare la coalizione della quale il M5S è forza di maggioranza relativa; anche se con i numeri che il popolo gli ha dato nel 2018, oggi probabilmente più che dimezzati. Sia chiaro: criticare un governo di cui pure si è parte rilevante non è solo legittimo ma doveroso. Lo è altrettanto chiedere, anzi pretendere dal presidente del Consiglio che medi e trovi un punto di incontro tra forze così diverse.
Fa parte della fisiologia della politica. Ma la virulenza e la ripetitività con le quali si attacca palazzo Chigi hanno qualcosa di eccessivo e stonato. Evocano la spallata, non la ricerca di un compromesso. Soprattutto da un grillismo allo sbando, per paradosso nostalgico e orfano insieme di Palazzo Chigi e delle pulsioni anti-sistema, arrivano critiche così radicali da far pensare che l’unico modo per ritrovare un simulacro di identità sia quello di essere contro il premier. E pazienza se questo significa anche delegittimare il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, sodale di partito di Conte. Forse è un effetto collaterale perfino voluto e cercato .
Se si assistesse soltanto a una resa dei conti tra grillini, basterebbe chiedere che facciano chiarezza e vadano avanti. Ma lo stillicidio di critiche sta provocando effetti di sistema. Il senso di responsabilità nazionale dimostrato durante la pandemia anche dal M5S è svanito dall’orizzonte insieme con la guida del governo. È in atto una doppia guerra, decisa unilateralmente dal presidente russo Vladimir Putin, contro l’Ucraina e contro i valori della democrazia occidentale. Eppure Cinque Stelle e Lega picconano l’esecutivo, con gli occhi puntati un po’ su Mosca, molto sulle urne in avvicinamento.
Può darsi che qualcuno accarezzi l’idea di una crisi, sentendosi mancare terreno e soprattutto voti sotto i piedi. La speranza che questa deriva si fermi prima di causare danni gravi al Paese è obbligata. Ritenerla una speranza fondata, tuttavia, è un atto di fiducia. Ma pensare che il sistema politico sia fuori dalle difficoltà è rischioso. C’è dentro tuttora in primo luogo il perno ormai arrugginito dei Cinque Stelle, che sognando rivincite politiche e anche personali dimostra di avere perso lucidità. È l’involuzione tipica di una forza che, dopo avere tentato di maturare, tende a tornare in un bozzolo autoreferenziale: riflesso tipico di una minoranza estremista che rivendica la centralità passata.