Alla 23ª Biennale di Venezia, 1964, furono presentate opere di Johns, Oldenburg, Dine e Rauschenberg, che ottenne il Premio internazionale di pittura. Intorno all’evento quasi scandaloso, che sancì l’approdo e il trionfo della Pop Art in Europa, si scatenarono discussioni, dibattiti, polemiche. Più di mezzo secolo dopo il pubblico italiano avrà la possibilità di incontrare di nuovo le opere di un protagonista di quella nouvelle vague: Jim Dine.
L’11 febbraio verrà inaugurata un’ampia antologica, curata da Daniela Lancioni, al Palazzo delle Esposizioni di Roma (fino al 2 giugno). Il percorso parte dalla fine degli anni Cinquanta. L’incipit: piccoli dipinti e acquarelli datati 1959, nei quali campeggia una testa isolata dal corpo. Ingigantito, il medesimo soggetto ritornerà in un dittico del 2016 (Two Large Voices Against Everything). Seguirà un focus sugli happening, con fotografie e un commento audio registrato da Dine. Un ampio spazio sarà dedicato ai sensuali dipinti eseguiti tra il 1960 e il 1963 (come Window with an Axe, A Black Shovel, Four Rooms e Two Palettes in Black with Stovepipe). Vi si impongono alcune figure decisive del mondo-Dine: gli indumenti, gli strumenti di lavoro del pittore. Saranno esposti anche tre quadri portati alla Biennale del 1964: Shoe, White Bathroom e The Studio (Landscape Painting). Una tappa cruciale le sculture di alluminio e le opere nelle quali l’artista ritrae sé stesso esibendo abiti monumentali. E ancora, i cicli più celebri: i Cuori, le Veneri e i Pinocchi, sculture in legno modellate dai primi anni Duemila, omaggio all’immaginifico e metamorfico eroe di Collodi, meravigliosa e inanimata creatura che prende vita.
Archeologo della contemporaneità, Dine cattura frammenti muti di un mondo che sembra correre sulle rotaie rapide del tempo: indumenti, accappatoi, cravatte, scarpe, bretelle, tubi di docce, martelli, seghe, vanghe, asce, tavolozze, pennelli, barattoli e scalpelli. Dalla «prosa del mondo» Dine assume alcuni oggetti anonimi, usati, vissuti, sporchi, segretamente pittoreschi, che tratta come parole già pronunciate, da immettere in altri discorsi, riattivandone simboli e significati perturbanti. Dapprima, li defunzionalizza, estraendoli dal contesto originario di appartenenza. Li cinge d’assedio. Vi si avvicina; poi, se ne allontana; per farvi ancora ritorno.
Talvolta, Dine si limita a riportare oggetti «tali e quali», spingendosi verso il grado zero della comunicazione. Altre volte, accosta a quei fossili alcune rappresentazioni fotografiche. Più spesso li trasfigura e ne altera l’identità, incastonandoli negli sfondi isolanti e sensibili delle sue tele, fondali di palcoscenici neutrali, campiti con una tecnica di ascendenza informale. Strade diverse per provare a mettere in salvo brandelli di vita.
Partiamo dalle «junk sculptures». Risale al 1960 «La casa», un’installazione allestita nello scantinato della Judson Memorial Church al Greenwich Village di New York: un ambiente affollato di molle e di sedie rotte, di stracci e di vetri spezzati. Come è passato dall’happening alla pittura e alla scultura?
«Non sono passato da nessuna parte. Sono nato artista. Ho sempre saputo che questo starebbe stato il mio destino. Da ragazzo, dipingevo e intagliavo il legno per realizzare stampe. Quando sono arrivato a New York nel 1958, pittura e scultura facevano parte di me: erano iscritte nel mio corpo. In quel periodo, incontrai Kaprow e Oldenburg. Volevamo rendere viva la nostra pratica bidimensionale e tridimensionale. Sognavamo di creare sorprendenti teatri pittorici. Quante suggestioni. La performance era nell’aria. Incontrammo Cage. Guardavamo la televisione dei bambini. Ci riferivamo anche al teatro della crudeltà di Artaud. Adoravo i dipinti di Dubuffet: mi affascinava soprattutto la sua ossessione per gli emarginati, per l’“outsider art”. Conoscevo alcuni artisti autodidatti e vivevo in quel vasto assemblaggio di immondizia che era Manhattan. A un certo punto, ho voltato le spalle alle performance. Volevo impegnarmi nella pittura e nella scultura: linguaggi che non ho mai più abbandonato. Per un certo periodo, ho anche messo in scena i miei dipinti, come se si trattasse di teatro».
Cosa ricorda della Biennale di Venezia del 1964?
«Ricordo solo le scelte critiche di Alan Solomon, il curatore del Padiglione degli Stati Uniti: ricordo la selezione delle mie opere che fece. Ricordo anche che, a quell’epoca, avevo paura di volare e avevo forti disturbi fobici. Perciò, non andai a Venezia. Inviai le opere, che per la prima volta furono viste dal pubblico europeo. Per sempre sarò grato a Solomon di questa opportunità».
Ci sono tante differenze tra le sue opere e quelle dei protagonisti della Pop Art.
«La Pop Art è solo una sfaccettatura del mio lavoro. Non uso esclusivamente immagini popolari, riprodotte tecnicamente. Certo, mi interessano: perché fanno parte del mio paesaggio visivo. Ma a me interessano soprattutto le immagini legate alla mia esistenza».
I suoi quadri sembrano meno «assertivi» di quelli degli artisti pop: mettono in scena instabilità, fragilità, inquietudini.
«I pittori pop danno quasi esclusivamente risposte, soluzioni. A me, al contrario, piace dipingere mettendo a fuoco il problema del fare un quadro, del vedere: vorrei rendere il pubblico più consapevole del visibile, senza proporre risposte facili su un piatto d’argento. Sa, qualsiasi opera d’arte, se riuscita, è di per sé un commento critico sul suo stesso contenuto».
Nel suo lavoro, c’è un profondo disagio, un sincero gusto per l’imprecisione, per l’imperfezione.
«Trovo giusta la sua descrizione della mia personalità. Non inseguo l’imperfezione, ma sono portato ad accettare il fatto che, se sei umano, nulla è perfetto. Quel che mi appassiona davvero è realizzare quadri, nel mio studio: l’atto stesso del dipingere, dello scegliere i colori, dell’agire sulla tavolozza. Sono affascinato dal “fatto a mano”. Il romanticismo del “fatto a mano” mi accompagna da sempre. Sono orgoglioso di essere un lavoratore nel campo dell’arte. Ecco, per me, ogni artista dovrebbe essere innanzitutto un lavoratore nel campo dell’arte».
Alcuni critici hanno interpretato le sue opere come autoritratti impliciti. Quanto è importante la matrice autobiografica nella sua ricerca?
«Non so quanto ci sia di autobiografico in ciò che faccio. Ma ritengo che dagli scontri e dai conflitti casuali possa scaturire una grande bellezza».
Da che cosa deriva la scelta degli oggetti poveri, legati alla quotidianità, che riempiono i suoi quadri?
«Il mio inconscio e la mia vita interiore ed esteriore sono il materiale da cui parto e su cui mi interrogo continuamente. Ad esempio, le mie grandi orecchie rappresentano, per me, quello che le poche misere bottiglie rappresentavano per Morandi. Inoltre, sin da bambino, ho iniziato a familiarizzare con gli utensili più semplici. Mio nonno aveva un negozio che vendeva strumenti per carpentieri e costruttori. Quegli oggetti del desiderio sono stati i miei primi giocattoli. Desideravo organizzarli secondo un mio ordine. Servendomi di quegli attrezzi, riuscivo a sognare».
I «feticci» sospesi che ritroviamo nei suoi dipinti rimandano anche alla tradizione della Metafisica dechirichiana.
«Non ho mai esaminato la natura fenomenica. Per me, il mondo reale e l’inconscio hanno la medesima rilevanza. Si tratta di dimensioni che contengono momenti lirici. Del resto, per me, ogni cosa ha in sé barlumi di poesia. I miei oggetti, quelli reali e quelli dipinti, sono pieni di poesia. Almeno vorrei che fosse così».
Come riesce a combinare l’oggettività dei suoi prelievi e la soggettività degli interventi pittorici cui ricorre?
«Mi sono allenato a guardare le cose attraverso il disegno. Sono diventato un disegnatore osservando attentamente le cose: i miei principali soggetti di analisi. La mia anima e la mia mano mi permettono di tenere insieme oggetti concreti, interventi pittorici e immagini fotografiche».
Nel corso degli anni, il suo lavoro è molto cambiato. Che cosa è rimasto nel Jim Dine di oggi del Jim Dine degli anni Sessanta?
«Faccio l’artista da oltre settant’anni. Il mio lavoro è cambiato con il passare del tempo. Inevitabile. Dopo aver fatto una determinata cosa, vado avanti, e ne realizzo un’altra. Questi passaggi sono solo sfaccettature diverse della mia identità umana e intellettuale».
Alcuni suoi compagni di viaggio come Jasper Johns hanno scelto di isolarsi dall’«artworld». Come si relaziona a questo mondo? Come lo giudica? Lo frequenta?
«Come Jasper, nutro una scarsa curiosità per l’art system. È un mondo che ha scelto di essere gestito da mercanti d’arte, da direttori di musei e da curatori cinici. Gli artisti occupano un ruolo sempre più marginale in questo sistema. Perché dovrebbe interessarmi l’artworld? Sono impegnato a lavorare. Non ho tempo per le opinioni e per il mercato».
La sua storia verrà riattraversata a Roma.
«Sono orgoglioso di fare finalmente una mostra a Roma!».
I critici, spesso, hanno provato a inquadrarla in gruppi o in tendenze (New Dada, Pop Art). Lei si è sempre sottratto a questi tentativi, mostrandosi insofferente nei confronti delle definizioni…
«Sono diventato artista perché avevo la necessità di farlo. Da ragazzo, mi sono “inventato” come uomo e come pittore soprattutto perché volevo sopravvivere a quella valle di lacrime che è il mondo in cui ci muoviamo ogni giorno. Oggi ho quasi 85 anni e mi sento furiosamente felice».