Il Primo Maggio, quella che dovrebbe essere la festa dei lavoratori, non di un astratto «lavoro», cade quest’anno nel pieno di una guerra devastante in piena Europa che, nata come sanguinosa aggressione militare di Putin all’Ucraina, ormai assume i contorni di una guerra mondiale dai costi incalcolabili, di lunga durata – ma potrebbe essere alla fine di breve e catastrofico momento – per la «vittoria» sulla Russia di un fronte di nuovi volenterosi a guida angloamericana, della quale l’Unione europea è al carro mentre già appare come vittima.
L’aumento indifferenziato, generalizzato quanto insensato della spesa militare ne è il primo assoluto e infausto risultato. Azzerata senza responsabilità e spiegazioni la promessa della pace nel Vecchio Continente – in realtà già compromessa negli anni Novanta nel sud-est europeo con la guerra nell’ex Jugoslavia e il coinvolgimento della Nato -, si apre una voragine nella quale ad essere immediatamente precipitati in primo luogo sono i subalterni, le classi popolari, i lavoratori. E non solo in Italia.
Perché più spesa militare – ormai la misura è quella verso il raddoppio per decine di migliaia di miliardi – mette nell’angolo e pesa come un macigno sulla spesa sociale, quella decisiva per la ripresa della vita e del lavoro dopo quasi tre anni di pesante pandemia globale.
Nei quali, vale la pena ricordarlo, 23 milioni di lavoratori dipendenti hanno sostenuto in Italia il soccorso e la cura sanitaria in condizioni a dir poco impervie, e insieme l’intero processo produttivo.
Sui lavoratori precipitano l’aumento del costo dell’energia e quello della mancanza della materie prime, riflesso diretto della guerra e poi delle sanzioni. L’affanno menzognero dei governi europei, e quello di Draghi in primo luogo, è in parte sostenere che va tutto bene – «arrivano i fondi del Pnrr, state tranquilli…», ma secondo quale principio redistributivo resta un mistero relegato nelle stanze del potere -; dall’altra di annunciare ridimensionamenti nelle forniture di gas e petrolio per far trapelare il messaggio duro e minaccioso di una «economia di guerra» che porta al «razionamento». Indovinate che dovrà pagarlo?
L’obiettivo, solo ideologico, è quello della «crescita». Ma di quale economia? Del capitalismo finanziario fini qui fallimentare che trasforma il lavoro vivo dei lavoratori, della collettività, in profitti sempre più privati per una oligarchia mondiale che detiene le ricchezze del pianeta, mentre la produzione materiale viene sussidiata a partire dai costi energetici alla fonte, vale a dire sussidiando ancora una volta Confindustria. Lo Stato regolatore entra in funzione certo, ma con la regola aurea di sostenere chi ha il potere di comando.
Ma la verità è che la povertà aumenta, oltre le 5 milioni di famiglie, che crescono i lavoratori poveri pur se occupati, e che i salari sono al palo e perdono ogni giorno di più che passa in assoluto il potere d’acquisto. E quando è il lavoro vivo ad essere sostenuto provvisoriamente nell’anticamera dei licenziamenti, viene penalizzato e poi cancellato: siamo alla beffa che Confindustria accusa di ricatto la proposta di legare gli aumenti salariali all’inflazione attuale.
Siamo sempre alla produzione di merci e beni di consumo sempre privati, mentre i servizi collettivi vengono depotenziati se non privatizzati. Il taglio recente alle spese sanitarie per aumentare gli investimenti nella spesa militare è stato sintomatico, nonostante il disastro mostrato dal sistema sanitario durante la pandemia in alcuni «modelli ispiratori» come quello lombardo.
È poi sempre sull’altare della crescita che si realizza, asimmetricamente, un’altra guerra sul corpo dei lavoratori, della quale stavolta non è responsabile Putin: le morti sul lavoro. 220 persone – cifra aggiornata a fine aprile – hanno perso la vita solo dall’inizio dell’anno sull’altare di questa promessa meschina. Una strage italiana, avvelenata in più dalla tragedia della nocività dei luoghi di lavoro e dell’ambiente che generano altre vittime, che continua ogni anno impunita con l’allegato di fiumi di retorica. Non altro.
Infine la democrazia. Perché questo tempo di guerra è in pericolo. La stagione verso la quale stiamo andando infatti è quella di una stretta istituzionale emergenziale, confermata dal conflitto in corso, che porti all’infinito l’impianto draghiano: parlamento inutile e governabilità ad ogni costo per la stabilità e, naturalmente, la «crescita». Chi la fa, per che cosa e per quale occupazione?
Quando è ormai evidente il contrario: solo la democrazia conflittuale fondata sui valori della costituzione può salvarci dal disastro. Vale a dire a partire dai diritti delle lavoratrici dei lavoratori. Mentre la crisi della rappresentanza politica mette in discussione e attacca anche il ruolo del sindacato, l’unico che affronti la questione sociale ormai esplosiva. Una democrazia del controllo, a partire dal processo produttivo qui e ora, dei suoi fini, a cominciare dai luoghi di produzione materiale e immateriale. E dal basso per un nuovo modello di sviluppo, che individui subito le reali alternative energetiche e i risparmi, e le pratichi rifiutando i passi indietro (del nucleare, del carbone), per una transizione ecologica vera che scelga la filiera della pace e non quella delle armi, perché il disarmo non è una chiacchiera degli «sconsiderati» pacifisti, ma concreta possibilità di nuovo, riconvertito, lavoro. E che assuma il principio dello scambio eguale e solidale tra i popoli e non quello attuale della rapina e dello sperpero. La pace ora è la prima vertenza sindacale, il primo contratto da strappare. Buon Primo Maggio.