- I meno felici sono i disoccupati (30 per cento), le casalinghe (46 per cento) e gli studenti (51 per cento)
- I sentimenti di affaticamento e tristezza sono implementati da: il doversi arrangiare finanziariamente e l’incertezza del vivere di stipendio in stipendio (56 per cento); il non avere abbastanza soldi per poter comprare quello che si ritiene utile e necessario (56 per cento); lo stress per lo status delle proprie finanze (44 per cento)
- Nei ceti popolari oltre la metà delle persone (58 per cento) prova insoddisfazione per l’attività lavorativa svolta e il 52 per cento non è soddisfatto dell’equilibrio tra il tempo che dedica al lavoro e quello che ha a disposizione per gli altri aspetti della vita
Nella domenica del Primo maggio non parliamo solo di lavoro ma di felicità, di quello che l’Assemblea generale dell’Onu riconosce come uno scopo fondamentale dell’umanità. Il World Happiness Report 2022, che analizza la situazione di ben 150 nazioni, mette in vetta alla classifica delle felicità Finlandia, Danimarca e Islanda. L’Italia è bassina, al 31° posto. Prima del nostro Paese ci sono Germania, Canada, Stati Uniti, Francia, Spagna, Uruguay, Slovenia, Costa Rica, Romania, Taiwan, solo per citare alcune nazioni. Il nostro è un Paese in evidente deficit di felicità, in cui, oltretutto, il senso di serenità e benessere è sempre dicotomizzato lungo la linea delle divisioni di classe.
LA FELICITÀ DI CLASSE
Parlare di felicità dopo due anni di pandemia e con i venti di guerra che aleggiano nel nostro continente non è facile. Se “la felicità non è per tutti” come afferma Isabelle Allende nel suo romanzo l’Amante giapponese, in Italia essa è un bene sempre più ad appannaggio del ceto sociale agiato e sempre meno presente nei segmenti meno fortunati. Certo, è sempre stato così, ma oggi la dimensione della forbice si è allargata in modo pericolosamente eccessivo: ben 44 punti percentuali. I dati sono eloquenti. Un sentimento di vera felicità è provato solo dal 6 per cento degli italiani. Un altro 52 per cento vive una dimensione calmierata, ma sufficiente di serenità. Il restante 42 per cento prova un basso o nullo sentimento di felicità. Se lasciamo i dati medi e osserviamo le differenze per classi sociali, la frattura diviene molto profonda. Il livello di felicità nel ceto medio è al 74 per cento, mentre tra i ceti popolari sprofonda al 30 per cento. Dal punto di vista delle tipologie professionali, i più felici risultano i quadri e i dirigenti (73 per cento) seguiti dai pensionati (67 per cento). Di contro i meno felici sono i disoccupati (30 per cento), le casalinghe (46 per cento) e gli studenti (51 per cento). Dal punto di vista territoriale il maggior agglomerato di persone serene si trova a Nordest (65 per cento), mentre i nuclei di infelicità si annidano a Nordovest (46 per cento) e nelle Isole (51 per cento).
I GENERATORI DI FELICITÀ E INFELICITÀ
Quali sono gli aspetti che sono alla base del senso di felicità delle persone? Guida la classifica il tema della famiglia (70 per cento), in particolare per donne, pensionati, quadri e over 50 anni; mentre in fondo ai generatori di serenità troviamo la carriera (10 per cento), l’apprezzamento degli altri (16 per cento) e il posto di lavoro (16 per cento). La mancanza di meritocrazia, le difficili relazioni con gli altri e la qualità del lavoro svolto sono, quindi, i principali fattori che originano tristezza e pesantezza di vita. I generatori di felicità, di cui le persone avvertono maggior bisogno, sono, invece: la stabilità della condizione economica (47 per cento) e del lavoro (31 per cento), nonché la salute (30 per cento). Anche in questo caso le differenze sociali sovrastano il dato medio. Per i ceti popolari, i disoccupati, le casalinghe e gli operai in vetta alla classifica c’è la condizione economica (66 per cento), seguita dal lavoro (39 per cento). A implementare ulteriormente i sentimenti di affaticamento e tristezza sono: il doversi arrangiare finanziariamente e l’incertezza del vivere di stipendio in stipendio (56 per cento); il non avere abbastanza soldi per poter comprare quello che si ritiene utile e necessario (56 per cento); lo stress per lo status delle proprie finanze (44 per cento). Nella giornata della Festa dei lavoratori non si può evitare di sottolineare che, nei ceti popolari, oltre la metà delle persone (58 per cento) prova insoddisfazione per l’attività lavorativa svolta e il 52 per cento non è soddisfatto dell’equilibrio tra il tempo che dedica al lavoro e quello che ha a disposizione per gli altri aspetti della vita. Di fronte a questi dati e a coloro che rabbrividiscono quando si parla di aumentare i salari e migliorare le condizioni di lavoro, forse è utile rammentare le parole di Larry Fink, il Ceo di BlackRock (la più grande società di investimento nel mondo e non un improvvido centro anticapitalista): “Le maggiori richieste dei lavoratori nei confronti dei loro datori di lavoro è un tratto essenziale di un capitalismo efficace. Favorisce la prosperità e crea un clima più competitivo per i talenti, spingendo le aziende a creare ambienti migliori e più innovativi per i loro dipendenti”. Forse è ora di incominciare anche in Italia a invertire la rotta e pensare che aumentare gli stipendi è un investimento in capitale umano e non un mero costo.