Antonio Gnoli
Il critico letterario: “È stato un anno duro e pieno di guai. Scrivere è anche nascondersi”
Che cos’è un uomo che vive in mezzo ai libri? Non più di due ore prima dell’incontro con Mario Lavagetto – un critico tra i più straordinari e solitari del nostro mondo letterario – pensavo che un paesaggio di pile e di scaffali con i volumi allineati fosse quanto di più ovvio si possa immaginare nella casa di uno scrittore o di un critico. Ne rivelasse i gusti, la storia, il mondo. Ma poi, trascorso il tempo della conversazione, non ero più così certo. E vedevo, quella stessa scena, fatta di tranquille abitudini e di piccole certezze, trasformarsi in qualcos’altro. In cosa? ho pensato quando il suo cellulare ha preso a suonare e lui l’ha spento, estraendo dal taschino una scatolina: “Quel suono mi ricorda che è l’ora della mia medicina più importante. Dovessi dimenticare di assumerla, sarebbe grave”, dice. E con un gesto rapido ha ingoiato la pillola.
“È stato un anno duro e pieno di guai. Ho guardato ai miei libri come a un territorio ostile, che non riconoscevo più, che stancava e impauriva. Volevo attraversarlo, ma non ce la facevo. Volevo ingraziarmelo ma era gelido e inospitale come una tundra d’inverno”, aggiunge. Nell’ambiente ovattato, di un appartamento di Parma, la voce mi arriva monotona e un po’ irreale. È degno di nota che Lavagetto parli di sé con lo stessa indifferenza con cui descrive le sue strepitose avventure letterarie. L’azione letteraria del dolore non è poi, sospetto, tanto diversa da quella che la vita ci riserva.
C’è un rapporto tra letteratura e vita?
“C’è, ma è meglio non codificarlo”.
Uno strumento per provarci è la psicoanalisi.
“Me ne sono servito, ma con cautela. Non aiuta a fare diagnosi complete sugli scrittori. Non funziona con tutti”.
Quindi non è un metodo.
“Non lo è”.
E su chi ha funzionato?
“Su Umberto Saba perfettamente. Per leggere il Canzoniere la psicoanalisi è utile. Alla fine degli anni Venti, a Trieste, va in analisi da Edoardo Weiss”.
Ci va perché?
“L’analisi gli consente di capire e di riuscire a convivere con la sua omosessualità”.
Farà poi una specie di coming out con il romanzo incompiuto Ernesto.
“È vero ma uscì solo postumo”.
L’inconscio è fondamentale nella scrittura?
“Ne sono convinto”.
È una relazione rischiosa?
“Scrivere è anche nascondersi. Julien Gracq ha detto che dentro a un libro che leggiamo ci sono le tracce di più testi fantasmi che sono stati rifiutati o scartati. Un buon critico si mette alla ricerca di quei fantasmi”.
Viene in mente Flaubert.
“È un punto di svolta interessante per il nostro discorso. Penso allo straordinario controcanto alla sua opera che è l’Epistolario, in cui butta fuori tutto quello che viceversa nei romanzi trattiene. Lui paga qualsiasi parola scriva”.
Nel senso?
“Deve costruire virgola per virgola il suo edificio letterario. Una fatica e una sofferenza terribile. È una figura cruciale della modernità. Un altro autore dell’800 che amo moltissimo è Balzac. Ma è uno scrittore diverso, meno problematico”.
Più di superficie?
“Non proprio. C’è tutta una zona oscura che lievita nei suoi romanzi. Fa da sottofondo”.
Cosa l’affascina del sottofondo?
“L’oscurità può diventare una risorsa narrativa. Non è un caso che mi sia laureato su Dino Campana. La sua follia mi incuriosiva. Impiegai alcuni strumenti analitici derivati, però, più da Jung che da Freud”.
Una preferenza che giustificherebbe come?
“La psicoanalisi di Freud applicata alla letteratura mi risulta meccanica e prevedibile. Jung opera una discesa agli inferi. Provò a spiegare anche Joyce, che pure non amava la psicoanalisi”.
Lei con chi si è laureato?
“Con Giacomo Debenedetti”.
Si dice che le sue lezioni fossero straordinarie.
“Lo erano. Un meccanismo perfetto. Una costruzione trasparente, senza pecche. Ascoltavi con la sensazione che tutto fosse chiaro”.
Non lasciava spazio ai dubbi?
“Totalmente persuasive. Noi ragazzi vivevamo quelle lezioni con un fascino particolare. Qualcosa del genere mi accadde anche con Federico Chabod”.
Chi erano i suoi amici all’università?
“Sono sempre stato un solitario, allora come in seguito. Un’amicizia che mi portavo dietro dagli anni dell’adolescenza è stata quella con Bernardo Bertolucci. Venivamo entrambi da Parma e i nostri genitori si conoscevano bene”.
Suo padre cosa faceva?
“Cominciò come giornalista. Ma fu licenziato per le sue idee contrarie al fascismo. Si ingegnò con lavori saltuari. Non a Parma ma a Falconara. Ricordo che non c’era mai in casa. Seppi dopo che, da clandestino, aveva aderito alla lotta antifascista. Alla fine della guerra Ferruccio Parri gli propose di entrare in politica. Non se la sentì. Accettò, invece, l’offerta di dirigere a Roma l’Anonima petroli italiana. E fu la ragione per cui agli inizi degli anni Cinquanta ci trasferimmo nella Capitale”.
Non dà l’idea di essersi immediatamente ambientato.
“Facevo una vita abbastanza solitaria. Presi a frequentare il ginnasio, al Virgilio. Passavo le mie giornate a leggere. Ed era come se un’ansia di felicità montasse ogni qualvolta facevo una scoperta tra le pagine di un libro. Avvertivo un’emozione fortissima, la stessa che avevo provato nei miei anni di bambino”.
Gli anni di Parma?
“Più esattamente gli anni in cui, durante la guerra, sfollammo nella campagna del parmense. Ricordo certe sere in cui un vecchio si fermava da noi, chiedendo alla mamma un piatto di minestra. In cambio adunava in una stalla noi bambini e quelli delle case coloniche vicine e raccontava delle storie meravigliose. Fu un’esperienza straordinaria che mi fece capire che la lettura anche quando è un fatto individuale, riflette un mondo di legami collettivi”.
È il meccanismo dell’ascolto della fiaba.
“Quasi tutto parte da lì. È vero. Walter Benjamin disse che quando il narratore raccoglie attorno al fuoco un po’ di gente produce una specie di miracolo. Ognuno di coloro che ascolta diventa lui stesso narratore. Si crea una catena emotiva fortissima”.
Mi pare difficile che oggi si legga ancora in quel modo.
“Si pensi al Processo: un uomo passa quasi l’intera vita davanti a una porta, si sente dire che non può varcarla e poi scopre che quella è la sua porta. Nel racconto Nella colonia penale la scrittura stessa è una forma di tortura che pian piano incide sulla schiena del condannato la sentenza. Cosa c’è di più crudele?”.
E Proust?
“È sufficiente seguire il destino dei personaggi della Recherche, vedere come sono spiati dal narratore, che non concede loro né tregua né clemenza, per capire che Proust ha bisogno di quel sentimento per raccontare che un certo mondo, il suo, era finito”.
Pensa che una certa crudeltà si sia accanita su di lei?
“Siamo soliti definire “crudele” il nostro destino. Ma non c’è niente di crudele. C’è la sventura che ci rende piccoli e inermi. E non sempre capaci di reagire”.
Mentre parlava notavo che oltre alla letteratura anche la vita a volte esplode senza che ce ne accorgiamo. Lei mi accennava a certe difficoltà che l’hanno coinvolta.
“La vita di uno studioso è solitamente tranquilla, ordinata, fatta di piccole soddisfazioni legate alle proprie ricerche. A me è accaduto che per un anno intero questo scorrere piano delle cose si interrompesse bruscamente”.
Cosa era successo?
“Dopo sei anni di dialisi, all’inizio dello scorso anno, ho affrontato un trapianto di rene. Una liberazione se non fosse stato per tutte le complicazioni che ne sono derivate”.
Dopo che gli fu trapiantato il cuore il filosofo Jean-Luc Nancy si chiedeva se quella persona che sentiva di essere fosse ancora lui.
“Una sensazione che capisco. Ma in me è subentrata una certa indifferenzarispetto all’organo vitale”.
Come sostituire un pezzo del motore?
“In un certo senso. La sola cosa a cui pensavo, prima dell’operazione, era al destino di mio fratello. Anche lui in dialisi per 19 anni e assolutamente refrattario al trapianto”.
Perchè?
“Forse perché aveva una situazione cardiaca compromessa o forse perché vedeva quell’organo come un intruso. Non so. Ma so che dovevo reagire in modo diverso da come aveva reagito lui”.
“Dopo un po’ che avevo cominciato la dialisi mi sono iscritto alle liste per il trapianto. Ho atteso cinque anni. Poi l’intervento. La speranza che si realizza. Ma al tempo stesso tutto quello che non ti aspetti e che va alla domanda essenziale: come reagirà il tuo corpo?”.
Il suo, lei dice, non ha reagito benissimo.
“No, complicazioni infinite. Quattro operazioni successive e la sensazione di essere entrato in un incubo. È stato un anno in cui la mia vita normale si è cancellata”.
C’è un rapporto tra come la letteratura ha trattato la malattia e quella vera?
“In letteratura la malattia è uno dei grandi temi. Nella vita è unodei grandi problemi. Quando arriva l’impatto, quello frontale, non c’è frase per quanto bella che ti possa aiutare. Poi, quando la situazione si stabilizza ed elabori i meccanismi di difesa, solo allora la letteraturaritrova il suo ruolo”.
In lei quel ruolo è stato ritrovato?
“Parzialmente sì. Sono un malato cronico ed è una cosa pesantissima. Sempre appeso a un filo, con il rene che può smettere di funzionare. Però ho riguadagnato i miei interessi, anche se la mia capacità di lavoro si è notevolmente ridotta. Quei mille pezzi, in cui si diceva era finita la letteratura, si ricompongono faticosamente”.
Tutto era iniziato con la morte di Tolstoj.
“Già, pensi che per non disturbare la sua agonia avevano messo la paglia sulle rotaie della stazione di Astapovo”.
Ha mai avuto la tentazione di dedicarsi al romanzo?
“Mi viene in mente Debenedetti. A 22 anni si pensava narratore. Legge Du Coté de chez Swann e capisce che tutto quello che avrebbe voluto scrivere era già stato scritto”.
Cambia strada.
“Sì. Mi verrebbe da dire: accettò il proprio destino. O per dirla, un po’ meno banalmente, con Lukács: la propria mancanza di destino”.
Il saggista è un uomo senza destino?
“Siamo al servizio dei destini altrui. Serviamo e succhiamo. Una forma di parassitismo sublime. O almeno tale è stato in passato”.
Non ci sono più grandi critici?
“Quando ancora oggi, per farle un esempio, leggo Erich Auerbach colgo la sua serenità di fondo. Sa perfettamente cosa fa e come lo fa. Il suo mestiere è legittimato interamente dalle sue conoscenze. Gli stimoli oggi sono infiniti e difficili da controllare”.
Il mestiere del critico sta morendo?
“C’è sempre una certa enfasi quando si tirano fuori i certificati di morte. Anche del romanzo si diceva che fosse defunto”.
E invece?
“È ancora qui”.
Però nel Novecento accade qualcosa di decisivo.
“Saltano i tempi narrativi. L’ultimo romanzo in cui ancora il calendario funziona perfettamente èI Buddenbrookdi Thomas Mann. Anche un romanzo complesso come I fratelli Karamazov, fatto di piani narrativi molteplici e complicati, è una specie di orologio perfettamente regolato. Se invece si va allaRecherche di Proust si nota che i tempi epici non sono più misurabili con strumenti oggettivi”.
Non corrispondono alla vita biologica dei personaggi?
“Proust se ne disinteressa”.
Perché il tempo narrativo deflagra?
“È difficile da spiegare. Certamente all’inizio del Novecento accade qualcosa nei vari ambiti: dall’arte figurativa, alla poesia alla musica, alla letteratura e naturalmente nella scienza, basti pensare alle rivoluzioni di Einstein”.
E alla psicoanalisi.
“Ovviamente. Non c’è più un tempo oggettivo misurabile”.
Tranne che in economia.
“Il tempo lì diventa ferreo. La letteratura e l’arte in genere si sottraggono a questa tirannia”.
Meglio smarriti ma liberi?
“In un certo senso. Anche se lo “smarrimento” non è una condizione che viene scelta ma subita”.
I quattro grandi dinamitardi della letteratura del Novecento sono considerati Proust, Musil, Kafka e Joyce. La convince?
“Direi di sì. Ci sono altri grandissimi come Faulkner per esempio, o Bulgakov. Ma la statura non è lo stessa di quelli che ha citato”.
E tra questi lei predilige Proust.
“Non è un segreto. Ho scritto tantissimo su di lui. Ma ho anche letto moltissimo Kafka, che amo enormemente”.
Proust e Kafka sono due mondi opposti.
“Senza dubbio. E tuttavia sia l’occhio dell’uno che dell’altro sono precisi e crudeli”.
Crudeli?
“Quel modo di raccontare si chiude con la morte di Tolstoj. Per quanto raffinato, straordinario e in perfetta solitudine, Tolstoj è l’ultimo narratore della tribù. Poi tutto cambia. Il romanzo muta pelle. Va in mille pezzi”.
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