L’ABOrisma: il curatore diventa curato

di Gianluigi Colin

 

Dalla finestra aperta, il garrito stridulo e insolente dei gabbiani riempie lo studio. Achille Bonito Oliva li guarda volteggiare sopra i tetti della sua casa romana in via Giulia e accenna un sorriso: «Sa perché mi piacciono? Sono spietati». Il grande critico è così: diretto, fulmineo, provocatorio, in qualche modo sempre vero, senza tanti filtri di conformismo e ipocrisia, capace di essere dolce e crudele, ironico e cinico, anzi, talvolta proprio come i suoi gabbiani: spietato. Lo è stato in diverse occasioni, con le sue battute taglienti contro colleghi o artisti, ma oggi è felice e ne ha ragione: è pronto a festeggiare, da protagonista, la mostra A.B.O. THEATRON. L’arte o la vita, che il Museo di Rivoli gli dedica per il suo autorevole e potente ruolo di intellettuale e critico nell’arte contemporanea internazionale. E con due giorni di inaugurazioni (il 24 e 25 giugno) eccoci dunque a questo riconoscimento che corona una prodigiosa avventura: «Da curatore sono diventato curato; sono molto contento, lo ammetto».

Certo, Bonito Oliva non sembra avere 81 anni. Con il suo parlare colto, lineare, acuto e sempre preciso, senza sbalzi di tono, gli occhi mobilissimi, la bocca socchiusa in una specie di smorfia in un perenne sorriso beffardo (che evoca il dipinto dell’Ignoto marinaio di Antonello da Messina) e poi quella frangia tagliata dritta sulla fronte: tutto gli conferisce un’aura speciale, qualcosa di mitologico, la stessa che ritroviamo nei busti degli imperatori romani. Pensando a un suo glorioso personaggio di riferimento, la mente va a Totò, imperatore di Capri. Così sembra di vedere l’iscrizione — Achilles Bonito Oliva: princeps Dei es artis criticae. D’altronde lui stesso, da irrefrenabile autore di «ABOrismi», ironizzando su se stesso, ha sempre sostenuto: «Ero un enfant prodige. Ora sono un prodige». E aggiunge: «Non sono un curatore, sono un guaritore».

E ora, alla domanda su come vive l’idea di diventare tema di una mostra, anzi, di essere un «pezzo da museo», risponde: «L’effetto è quello di assistere. Di essere partecipe e serenamente rassegnato». Ma la verità è diversa: non ha per niente mollato il colpo e lui stesso ha scelto di essere anche curatore di se stesso, in un gioco di incroci palindromi con Andrea Viliani (che ha il coordinamento e lo sviluppo curatoriale) e Carolyn Christov-Bakargiev, con cui ha diviso l’idea e la struttura della rassegna.

Già dalla scelta del titolo e della centralità della parola Théatron — «teatro», ovvero «luogo dello sguardo» — c’è la chiave della mostra, dove conta implicitamente il concetto della percezione condivisa, ma nel binomio indissolubile, arte e vita, che sono la reale verità di Bonito Oliva. Troveremo tre sezioni: la prima propone le opere più significative presenti nelle mostre internazionali; la seconda offre una parte teorica che proviene dall’archivio con libri, documenti, lettere; la terza affronta la dimensione comportamentale, l’attraversamento dei media, la televisione… È proprio in questa combinazione di passioni che si snoda la mostra, secondo capitolo di un progetto del Castello di Rivoli dedicato ai più autorevoli curatori d’arte contemporanea. Nel 2019, fu protagonista Harald Szeemann: «La cosa interessante è che la mostra c’è con me da vivo», sottolinea ABO con sguardo complice.

Bonito Oliva accende l’immancabile toscano e comincia a parlare lentamente ma in un flusso ininterrotto, offrendo a ogni frase una forza speciale: parla di sé («Parlo sempre di me perché non voglio convincere nessuno, come diceva Tzara»), delle sue mostre, degli amici, anche dei nemici, ma soprattutto ripercorre le tappe della vita e il suo pensiero intorno a «La critica d’arte come arte della critica»: ovvero quel progetto utopico che vorrebbe trasformare il mondo attraverso l’arte.

Già, perché se qualcosa caratterizza la figura di ABO è stato che mai s’è sottratto a un «corpo a corpo» con l’arte, suscitando rispetto ma anche ire, conflitti, invidie, irritazioni, polemiche, sconcerto, ironie: come quando, nel 1972, ha creato un’azione artistica provocatoria e surreale con un gigantesco manifesto in cui c’era una sua foto e sotto a caratteri cubitali: «Io sono un coglione». O quando ha voluto posare nudo per «Frigidaire» (lo ha fatto tre volte: nel 1981, 1989, 2011) denunciando la sua visione sul ruolo del critico, nudo come la nuda verità di fronte all’arte: «I miei nudi preoccupavano più gli altri critici che gli artisti. Non ce la facevano ad arrivare a questo. Argan mi disse: “Ormai sei famoso a livello internazionale, a che ti serve spogliarti?” Gli risposi: ho dato corpo alla figura del critico, l’ho sottratto alla lateralità che aveva abitato per anni, dandogli una visibilità, e diciamo anche uno sfacciato edonismo». Poi aggiunge: «Modestamente nudo riesco a portarmi bene». E ride.

La natura di ABO è sempre stata caratterizzata da un’assoluta profondità di pensiero e un incontenibile bisogno di cazzeggio, insieme alla naturale capacità di governare i linguaggi dei media, consapevole, da filosofo (s’è anche laureato in Giurisprudenza a 21 anni) del pensiero di Jean Baudrillard sulla comunicazione nella postmodernità, sulla seduzione dei media, sul senso e il nonsense: «Il sistema dell’arte è basato sul principio della divisione del lavoro. L’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media moltiplicano, il pubblico contempla». ABO fa suo il pensiero di Roberto Longhi: «Critici si nasce, artisti si diventa»; e aggiunge: «Pubblico si muore».

Ma qual è la sua visione sullo stato dell’arte oggi? Bonito Oliva guarda silenzioso il cielo e sospira per cercare le giuste parole. I gabbiani sono la colonna sonora di questo incontro: «Credo sia successo, con la nascita di un nuovo collezionismo e di fondazioni private, Prada per esempio, che sia emersa la figura del curatore. Prima c’era soltanto la figura del critico come interprete dell’arte. Oggi il curatore che fa? Solo manutenzione. È un voyeur. E questo cosa comporta? Una disaffezione. Oggi non vedo figure di critici. In termini generazionali gli ultimi critici siamo stati io e Germano Celant. Se vogliamo fare un riferimento agonistico eravamo come Bartali e Coppi. Però sempre con molto rispetto. Tra noi non c’è mai stato scontro, soltanto confronto».

Una pausa. ABO si riaccende il sigaro: «La nostra relazione sul piano umano? Rispondo con una parola: sublimata. Ci si trovava spesso ospiti da Maria Gloria Bicocchi, in Toscana. Giocavamo a biliardo. C’era una comunità di critici e artisti, questa frequentazione scioglieva tutti i nodi possibili e non lasciava nulla in sospeso. Il confronto non poteva non esserci, visto che tutti e due avevamo una personalità decisa. Mentre intorno a noi c’era una generazione indecisa a tutto. E quella generazione si è moltiplicata attraverso i curatori. Non voglio fare l’apologia di un decisionismo culturale, ma sicuramente noi ci siamo assunti ruoli responsabili. Sì, ci siamo presi le nostre responsabilità».

Viene da chiedersi se questo dipenda dalla singola qualità delle persone o da una questione generazionale: «Io credo che ci sia una ragione con figure come Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi, Cesare Brandi, figure storiche che hanno segnato quell’epoca». Poi, come al solito ecco la zampata: «Argan non c’è più, sono rimasti gli arganauti».

Achille Bonito Oliva continua: «Avevo un ottimo rapporto con Argan. Credo gli piacesse il mio modo di gestire il movimento della Transavanguardia, gli piacesse il mio protagonismo, il fatto che ho dato al critico un nuovo ruolo. Non ho avuto alcuna sottomissione nei suoi confronti, ero stato immunizzato dall’esperienza del Gruppo 63. Subito c’è stata da parte sua simpatia e stima, perché c’era autonomia: io non provenivo da quella scuola. Questo ha favorito la mia crescita. Non ho avuto un rapporto edipico con Argan. In realtà c’era invece qualcuno che aveva un problema: teorizzo la Transavanguardia, e scatta un’infantile imitazione. Calvesi fa Anacronismo, Filiberto Menna L’astrazione Primaria, Flavio Caroli Il Magico primario… Tutti cercavano, pensando fosse possibile, di ripetere quello che è stata la Transavanguardia, invece… La Transavanguardia è stata un movimento spontaneo. Ho semplicemente seguito un mio impulso e una strategia risultata vincente a livello internazionale. Basti pensare che ho cominciato con Emilio Mazzoli a Modena, e poi con Gian Enzo Sperone».

Ha avuto pressioni? «Più che pressioni, aspettative; anche da parte di galleristi che si sentivano esclusi. Con Emilio ci fu n un incontro nato con Schifano. Emilio mi colpì subito perché mi ricordava “il professor Unrat” (dell’omonimo romanzo di Heinrich Mann che il film L’angelo azzurro con Marlene Dietrich ha reso leggendario, ndr). Era ed è una persona appassionata. Ci siamo piaciuti e abbiamo subito lavorato insieme. Ha un occhio per la qualità. Si avverte in lui un riserbo, confermato dall’avere conservato un legame con le sue radici. È un collezionista anche di libri, e questo è un feticismo fecondo: è il frutto di una curiosità onnivora, non sterile. Ha un rapporto sano con la vita, è un uomo di sani principi».

Perché ha avuto successo la Transavanguardia? «C’era un’egemonia americana in cui prevaleva Duchamp rispetto a Picasso. In Chia, Paladino, Cucchi, Clemente e De Maria non c’era un’adesione artigianale a un passato patetico, ma un usare la ripresa della pittura fuori dagli schemi della mimesi narrativa, tanto è vero che prevaleva su tutto il principio dell’ironia. Ricordiamoci: come dice Goethe, l’ironia è la passione che si libera nel distacco».

Questa mostra invita inevitabilmente a fare dei bilanci. Pentimenti? «No. Quando dovevo dire o scrivere su cose che non mi convincevano l’ho fatto… non ho contrattato nulla. E non ho neanche rimorsi, né nostalgie. Per usare una frase di Agnetti: io amo dimenticare a memoria. Vede, un critico progetta il passato, in quanto interviene come un pompiere quando l’incendio è scoppiato. Ma nello stesso tempo la sua lettura conferisce un tempo lungo all’opera. L’opera resiste nel tempo. È l’artista a essere un errore biologico rispetto all’opera. E questa resistenza è il frutto della stratificazione del tempo. L’arte è un respiro biologico dell’umanità. E questo crea oggettivamente una sintonia tra il respiro creativo e il respiro creatore. Mentre il critico è creativo, l’artista è creatore. Sono ruoli che messi in sintonia possono sviluppare un’apertura e una tentazione dell’arte di essere sempre più libera. In questo senso, sono contro le ideologie nell’arte. Il pericolo può essere un atteggiamento ortopedico. Si può evitare con facilità se il critico è libero da ogni prevenzione».

Infine: «Il critico è un libertino: sono un Dongiovanni della conoscenza».

Va detto che il nostro «libertino» ha fatto davvero alcune mostre epocali: «Ho sempre teorizzato la forza della scrittura espositiva: un critico scrive non soltanto nelle parole ma anche con la collocazione nello spazio, in una sequenza capace di produrre una riflessione».

Lo confermano alcune rassegne, libri e interventi che ne hanno delineato l’indiscusso successo: a cominciare dal volume Made in mater (edizioni Sampietro, 1967), in cui Bonito Oliva esordisce come poeta ed entra nel Gruppo 63. E poi, la mostra Amore mio, 1970 («Un titolo da Sanremo quando intorno c’era solo politica»), Vitalità del negativo, 1970 («Citavo Nietzsche in anni in cui era un nome impronunciabile»), Contemporanea, 1973 («Non avevo salotti dove esporre e da napoletano mi sono arrangiato nel garage di Villa Borghese»); Opere fatte ad arte, 1979 («Qui nasce la Transavanguardia») e poi la Biennale di Venezia del 1993 («Una Biennale interdisciplinare, diffusa, multimediale, transnazionale») ma anche l’esperienza della metropolitana di Napoli («Ho creato un museo obbligatorio»).

Ma c’è qualcuno che si salva nelle nuove generazioni? «Certo, non tutti sono catastali e notarili, anaffettivi o portatori di una frigidità dello sguardo. Vuole un nome? Vicente Todolí. Lo stimo. E tutto sommato, anche Massimiliano Gioni: è un giovane che è arrivato all’arte contemporanea, lo dice lui, vedendo la mia Biennale del 1993 e ne ha fatto tesoro».

«Mi devo togliere qualche sassolino? Va bene. Credo di non avere interlocutori all’altezza. Intanto perché sono un basso napoletano. Negli anni Settanta, la cosa davvero triste fu questa: figure che mi avevano appoggiato hanno poi avuto un risentimento verso di me: non accettavano il mio successo. Lì ho potuto toccare con mano la pochezza morale anche di una figura come quella del critico. Erano morsi dall’invidia».

ABO scuote la testa: «Ho dovuto combattere contro il pregiudizio. Non solo dei critici rimasti nelle retrovie ma anche degli artisti che non accettavano il protagonismo del critico».

Su quali artisti punterebbe oggi? «Non c’è più il mito della soffitta, piuttosto del superattico. Oggi non indicherei nuovi nomi, rispetto ad Aperto ’93, perché prima c’era un’idea di comunità, prevaleva il noi all’io, oggi gli artisti vanno avanti in fila indiana in maniera individuale e solitaria e non c’è più la possibilità di indicare aree nuove. La colpa è della postmodernità: ha cancellato visioni, ideologie, sogni comuni. C’è un procedere in prima persona singolare. Prima c’era un corpo a corpo con l’arte. Ora tutto si è sbriciolato. Sono crollati i rituali, la mostra, le inaugurazioni, le fiere. Sono spariti gli incontri».

Caro ABO, è arrivato il momento di fare qualche gesto apotropaico. Sulla tomba di Duchamp c’è scritto: C’est tojours le autres qui meurent (Sono sempre gli altri che muoiono). Sulla sua cosa vorrebbe fosse scritto? Con aplomb anglosassone il critico non batte ciglio: «Non sono superstizioso. Ma se dovessi fare una dichiarazione postuma direi che sono stato una spina nell’occhio dell’arte e della critica». Silenzio. Poi aggiunge con un sogghigno: «Per adesso».

 

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